giovedì 10 giugno 2010

Merda di cavallo. Non c'è. Non la vedo in nessun angolo o lato o vertice. Avvisto a nord la propritaria del locale col suo gruppetto ma Vania le ha abbandonate. Capto il capello fluente del fighetto di spalle che parla con una coppia di gay appena tornati dall'Olanda, credo. Vania non è tornata da lui. Dove diavolo si è cacciata? Il fraseggio di High mi viene nervoso, distratto. Giacomo si adatta alle mie variazioni mantenendo quella calma costante che lo contraddistingue. Appena accenna l'ultimo accordo mi volto verso di lui per chiederli clemenza ma mi anticipa con un: -Stai in forma zio! Questa dovremmo farla sempre così-

venerdì 16 aprile 2010

I DON'T GUESS. I KNOW THE NOTES. (3)

- Dov'eri finito? - Mento a Giacomo ed evito di ammettere che stavo fuggendo dall'antro popolato di esaltate represse sessualmente. Mi limito a scrollare le spalle e lo seguo su un palco improvvisato da cassoni di legno(praticamente quelli dove caricano la frutta al supermercato) foderati di moquette blu elettrica. Ma chi ha arredato questo locale? Ray Charles o Topolino? Continuo a lamentarmi ma sento avvampare un'improvvisa voglia di cantare. Mentre sistemo il microfono gli occhi scandagliano tra i visi dei presenti alla ricerca dell'unico che vorebbero scovare. Finalmente lo trovano. E' Vania di profilo che discute con un tizio appena uscito da una rivista patinata. Sto rosicando? assolutamente no, ma sento la fregola di volermi mettere la prova. Scommetto che il suono della mia voce riuscirà a distogliere Vania dal magnetismo di quel sorriso perlaceo. Giacomo sta ancora traccheggiando coi suoi gingilli elettronici e io ne approfitto per arrangiare a cappella un pezzo che avevo scritto qualche anno fa ma buttato nel dimenticatoio...Alcuni invitati, infastiditi, si voltano verso di me che bruscamente ho interrotto il loro chiacchiericcio. Vania rimane fissa verso il Matt Damon dei poveri...dannazione. Giacomo, come se non avessi fatto niente di strano, continua a sistemare i suoi attrezzi attento a non disturbarmi. La sua compiacenza mi dà una rinnovata sicurezza. Lascio che le palpebre si sfiorino chiudebndosi e mi convinco del senso di ogni parola intonata. Credere nel significato di ciò che sto cantando è il modo più efficace per farsi ascoltare davvero. Non so se Vania capisca l'inglese ma (dulcis in fundo) si gira! Il brano parla proprio degli incontri fortuiti, degli arrivi inaspettati capaci di sconvolgere una quotidianità collaudata mandando tutto in confusione.
Con una certa maestria ereditata da Clint Eastwood socchiudo soltanto l'occhio destro per assicurarmi che la sua attenzione sia ancora su di me. Il test risulta positivo! Ne godo e fingendo di ignorarla torno a vedere tutto nero. Annullando il senso della vista acuisco la potenzialità degli altri organi e mi diletto in armonie e fraseggi da oscar. Giacomo comincia a seguirmi pizzicando le corde della chitarra, assurdo! si ricorda ancora questa minchiata che avevamo scritto lo scorso secolo! Concludiamo in sincro con un La vibrato arabbeggiante (stile "mille e una notte") ed è un successone. I ragazzi applaudono compiaciuti, sono basito nel riscontrare così tanto apprezzamento. Forse sono stato eccessivamente frettoloso nel giudicare il mio attuale uditorio. Vedo Vania allontanarsi dal tipo di copertina e dirigersi verso tre ragazze. Tra di loro si staglia la ragazza del nostro amico, alias la proprietaria del locale, alias una bestia alta poco meno di due metri che a una domanda rivoltale da Vania risponde con un cenno affermativo del capoccione riccioluto. Sto per morire di curiosità ma wonder woman mi fa tornare in vita puntando l'indice grosso come una salsiccia verso di me. Vania le ha chiesto qualcosa su di me? ma si conoscono? questa possibile amicizia in comune mi eccita come un paguro. Sento per un attimo le gambe farmi giacomo giacomo, e non sto parlando del mio chitarrista. Richiamo all'ordine i muscoli (ad averceli!). Il gruppetto di cromosomi xx continua a guardare e borbottare nella mia direzione; santi numi ci manca solo un occhio di bue ad illuminarmi per portare al culmine la goduria che provo quando sono al centro dell'attenzione. Sono un egocentrico narcisista che ignora il significato della parola disagio in momenti del genere. Tutto ciò che voglio è far vivere agli altri le magie della mia arte e mostrar loro ciò di cui sono capace. Suoniamo il primo brano, aggiungiamo qualche virtuosismo qua e là, abbelliamo il pezzo come se fosse un albero di Natale. Canto tenendo gli occhi chiusi. Non so perchè, non è una forma di protesta, forse preferisco non vedere la reazione del pubblico, forse non me ne frega proprio niente sapere se piaccio o no. Ma una molla me li fa aprire. La criosità di sapere dov'è Vania mi sta divorando, devo incrociare il suo sguardo.

sabato 27 marzo 2010

I DON'T GUESS. I KNOW THE NOTES. (2)

La vecchia mi sorride vedendo quanto sono goffo dopo che i due piatti di pasta mi hanno letteralmente dilatato lo stomaco. Si compiace del fatto che la consideri un fenomeno dei fornelli, la strega dei tegamini, il demiurgo dei condimenti.
- quando scriverai una canzone per me?-
La sua domanda mi spiazza. Ma che scrivo su mia madre? già c'ha pensato Almodovar. Questa battuta è pietosa. Merito dei geni sarcastici che ho ereditato da mio padre. scherzando le rispondo che posso comporla in collaborazione con Nilla Pizzi così almeno potrebbe piacerle la linea melodica.
- ma che mi frega dell'accompagnamento musicale! io sono curiosa di sentire il testo e sapere cosa ti ispiro. sai...per capire cosa pensi di me -
La guardo stupito e asserisco:
- mamma questi discorsi me li faceva Federica al liceo. ti prego -
sorride e ritorna nel suo mondo popolato di stoviglie. Va bene, abbiamo difficoltà a metterci in connessione. Però almeno abbiamo pranzato senza discutere, che è tutto un programma.
Mi vedo con Giacomo per buttar giù la scaletta dei pezzi da suonare. Non ha nulla da replicare sulle mie idee e io continuo a rimanere sorpreso della nostra sintonia. Va bene che Giacomo non è un rompiscatole per natura, ma apprezza ogni mio spunto, anche quelli in cui io stento a credere. O lo fa per incoraggiarmi o perchè non gliene frega un cazzo di nulla...ma preferisco protendere per la prima supposizione.

Il locale fa cagare. Non è assolutamente underground, anzi sembra il covo dei fan degli Wham! Rifletto sul fatto se valga la pena di suonare i nostri brani. Stonano troppo con la situazione, le pareti sono verdi pisello (vomito!) e la proprietaria le ha tappezzate di fotografie trasformate in disegni con Cartoonizer o qualche programma simile. Sono i volti di donne impegnate nell'integrazione della donna all'interno del panorama politico e sociale. Tra gli invitati all'inaugurazione sono presenti infatti, oltre ai fan di George Michael, gruppetti di donne, lesbo e no, che discutono animatamente. Si menano le arie perche' loro sono le uniche ad affrontare discorsi impegnati, al contrario del 99 % delle loro coetanee che stanno parlando di sesso o unghie. Ce n'e' una poi che si sente Metternich al Congresso di Vienna. Urla e agita le braccia sgocciolando il suo tavernello sui poveracci che la stanno a sentire perche' non riescono a trovare una via di fuga. Giacomo scompare dalla mia vista. Nessuna occasione migliore per trovare una scusa e scappare dal covo delle pink ladies di Emma Bonino. Mi avvio verso l'uscita ma abbasso la testa per prendere il cellulare dalla tasca. Simil gesto mi fa urtare contro qualcosa, o meglio qualcuno. Il cellulare mi cade dalle mani per la legge del rinculo (non perchè io abbia le mani di ricotta)e impreco il mio fraterno CAZZO! Lo raccolgo in una gimcana di mocassini e tacchetti sperando che i vari chip e ciop siano funzionanti. Durante il mio scrupoloso ma inutile controllo una voce mi prega di chiederle scusa. Ho un vaffa pronto a tuffarsi dalla punta della mia lingua ma la vista anticipa la gola e rimango con un'espressione buffa senza riuscire a parlare. La ragazza che involontariamente ho colpito mi scruta massaggiandosi la spalla e dal diaframma mi esce uno "scusa" seguito da un imbarazzo logorroico:
- Perdonami, spero di non averti fatto male, sai dovevo assolutamente telefonare a un mio amico,era urgente, vita o morte e tenevo gli occhi bassi...- Mi sto dimenando in mille giustificazioni come la volpe colta con la gallina in bocca. Lei addolcisce teneramente lo sguardo...perfetto, le sarò sembrato un vero coglione. NO! alla fine l'ho detto...ma che ci devo fare, è la mia realtà. Ora mi sorride,ma è pazza? si presenta allungando un braccino esile, lasciato scoperto da una manica corta a palloncino un po' bohemienne. Impiego 15 minuti a capire il nome: Vania. Ma non è un nome russo da uomo? però tengo questo pensiero per me.
- Adesso che hai capito come mi chiamo ti decidi a dirmi il tuo nome?oppure la botta che mi hai dato ti ha causato un'amnesia?-
Si mette pure a fare la simpatica la ragazza...ma io non riesco a ridere perchè con una terrificante vibrazione il cellulare muore tra le mie mani. In qualsiasi altra situazione avrei elencato l'intero calendario dei Santi di Frate Indovino, eppure non mi esce fuori nemmeno un sibilo.Continuo a chiedermi perchè oggi sono così strano...
Vania si mortifica quando capisce l'accaduto e perde la sua sfrontatezza ironica. Josh riprenditi! invece di essere su tutte le furie ti metti a consolare una sconosciuta? Io che non mi sono mai fatto troppi scrupoli a mandare a quel paese una donna (anche quando ero nel torto) mi ritrovo a rassicurare Vania che la colpa è solo mia. Arriva Giacomo con una tenerissima pacca sulla spalla,trascinandomi per la maglia, mi porta dall'amico che ci ha procurato la serata. Nonriesco neanche a salutare Vania e della tal cosa mi compiaccio perchè mi fa tornare lo stronzo di sempre.

domenica 21 marzo 2010

I DON'T GUESS. I KNOW THE NOTES

-Josh! alzati immediatamente!-
Perchè non mi lascia in pace questa donna? Il fatto che sia la mia genitrice non le consente di trattarmi così. Di impartire ordini. Se si azzarda a strillare di nuovo la mando a cagare senza troppe smancerie. Smancerie? Ma come parlo? E' colpa sua, colpa di quella presbitera sui tacchi che continua a torturare la mia esistenza. Respira Josh, con calma, e rispondile docilmente, con gentilezza
-Mamma NON ROMPERE LE PALLE!- Lo sapevo, non ho saputo trattenermi e ho urlato. Stasera dovrò sorbirmi un'altra discussione col suo collega, mio padre. Almeno non ho usato parolacce, ed è un notevole vantaggio. Sì rompere le palle è un'espressione poco carina, però se si analizzano le parole di cui questa frase è composta non c'è alcuna volgarità. Innanzitutto ROMPERE (alias distruggere, fracassare): a chiunque può capitare. Mia madre ha poco da lamentarsi a riguardo perchè è la prima a mandare in frantumi le MIE cose quando entra come una furia nella MIA camera. Vaglielo a spiegare quanti sacrifici mi sono costate le pedaliere BOSS 20B che lei lancia contro il muro come se fossero coriandoli di carnevale! ovviamente a questo gioco aereo si uniscono i cavi degli amplificatori come allegre stelle filanti. Non sono disordinato, ma quando ho il MIO momento creativo, quando scrivo la MIA musica devo avere intorno il caos. Dal casino che c'è fuori trovo l'ordine dentro di me, riesco a mettere in una precisa sequenza note e parole, accordi e accenti. Che c'era dopo rompere? Ah sì, LE PALLE. Beh che dire...non mi sono mai piaciuti gli sport con le palle, non ero un classico bambino di 7 anni...anzi, forse ero troppo "classico": cantavo nel coro della Filarmonica. Ho avuto lo stesso una bella infanzia, sicuro! Anche gli altri membri del coro la pensavano come me, e questa comunione di punti di vista non mi faceva sentire un emarginato, piuttosto capivo di far parte di un'elite e mi piaceva un botto la nostra diversità. Ho sempre voluto distinguermi dalla folla. Se guardate le foto di classe sono quello che non è mai in posa e si fa i cavoli suoi; l'unica volta che ho guardato l'obiettivo è stato per dire ok immortalami pure, dalla mia presenza la foto di questi 30 scellerati può solo guadagnarci. Beh sì sono un'anticchietta vanitoso. ANTICCHIETTA? Cazzo la vecchia sui trampoli col suo strambo vocabolario mi sta nel Dna come la sorpresa nell'ovetto di cioccolata. Decido di alzarmi, non voglio passare l'intera cena a discutere, anche perchè stasera registriamo il nuovo pezzo e non posso deconcentrarmi. Certo, un po' di rabbia guasterebbe la mia voce in una maniera squisitamente rock...vabbè lasciamo perdere ooooh...issa.
- Josh non voglio ripeterlo p...- la vecchia entra spalancando la porta e si blocca vedendomi già in piedi, nudo. Quanto mi diverte metterla in imbarazzo. Si sente tremendamente a disagio quando giro senza vestiti per casa. Devo ammettere che questo gioco è la giusta vendetta per tutti i dispetti che la cariatide mi faceva da piccolo. Al mare si divertiva a lasciarmi senza slippino! Fino ai sei anni ero estremamente pudico, dunque correvo e mi ficcavo nella sua borsa da mare ( come ogni donna in quella sacca poteva entrarci pure la sdraio). Mi lasciava piangere per qualche minuto e affogava dalle risate. Fortunatamente ora sono l'esatto opposto di prima. Rido della moralità delle regole e delle convenzioni. Amo il cattivo gusto, sono diventato un provocatore incallito. Secondo Freud questa mia nuova attitudine sarebbe scaturita proprio dal bisogno di rivalsa nei confronti di mia madre e di questo episodio estivo. Io non ci credo. Perchè un episodio non determinato dalla mia volontà deve formare la mia personalità? Io decido come voglio essere. Quanto sono polemico, ma i puntini sulle i sono la mia firma.
Accontento colei che si definisce madre e mi dirigo verso l'università. Purtroppo coi vestiti indosso.
Al corso assistiamo a un'autopsia. Ho già detto che possiedo uno stomaco di ferro? No. Beh ce l'ho. Neanche un conato (eppure sono celebre per le mie colazioni luculliane) alla vista del feto sul tavolo operatorio....
Mi verrebbe da dirgli: non ti sei perso niente fratello, solo una massa di incazzature e delusioni, un mondo che ti faceva schifo e il desiderio continuo di cambiarlo fino a che ti saresti arreso. Poi penso alla madre...e mi viene in mente la mia e la gioia immensa che prova solo perchè esisto. Questa riflessione mi scuote un po'.
- pronto donna?-
- dimmi ragazzo- ah! mi risponde a tono
- mi fai la carbonara? Dai che a pranzo torno a casa! ci mangiamo un piatto di pasta insieme-
Attacco subito, prima di riuscire a sentire un suo gridolino contento. Uffa, tutto questo zucchero improvviso è controproducente, stasera canterò come un fesso. Non ho detto coglione? MMM oggi mi sento proprio strano.
NOOOOOOOOOOO! Giacomo mi sta chiamando. Sento aria di cambiamenti di programma.
- Zio che c'è?- Lo sapevo. Il batterista sta di nuovo male come ogni maledetto lunedì da novembre a oggi.
- Jo, prima di farti andare il sangue al cervello ascoltami, mi ha telefonato un mio amico per chiedermi se vogliamo andare a suonare all'inaugurazione del locale della fidanzata. Dai gli portiamo un duo acustico-
- E Boss? (l'altro chitarrista)-
- Se dobbiamo dividere quei due soldi in tre è inutile che andiamo. dai non fare il sentimentale -
- Sì hai ragione alla fine il contatto è il tuo. Mandami l'indirizzo -
Giacomo e i suoi ingaggi last minute...non mi fa schifo racimolare qualche euro, almeno questa prospettiva ammorbidirà la vecchia quando saprà che farò tardi anche questa notte. Quando la mia musica diventa lavoro è più indulgente.
Chi devo ringraziare per aver inventato la carbonara? Il sole finalmente si fa strada tra le nuvole di marzo e un raggio irrompe in cucina mentre sono seduto di fronte al 50% femminile dei miei cromosomi. In controluce noto le rughe; mentre sparecchia il passo si fa stanco e mi alzo per aiutarla. Rassegnati Josh, oggi sei strano, non sei te stesso. Sembro un personaggio di Dawson's Creek. Ci manca solo che stasera io canti gli u2 ed è fatta. Mi dichiaro gay.

martedì 29 settembre 2009

SI DEVE ANDARE IN SCENA!

- Marie soffoco! –

- Ordini di Bordenave – replicò Marie stringendo ancor più il corpetto. Vesilia si volse verso lo specchio. Notò che un forte rossore si era impadronito del suo viso, come era accaduto in un’altra occasione solamente. Già, quella volta che…

Timidamente guardava le scale che l’avrebbero portata nell’ultima fila dei palchi dell’Ópéra.

Aveva appena sfiorato i primi gradini col suo passo grazioso e svelto, quando sentì qualcosa trattenerla per la gonna. Si girò di scatto impaurita, ma i suoi timori svanirono allorché incontrò un candido sorriso.

- Una bellezza come la vostra non può gustare l’opera da così lontano –

L’uomo prese la mano che Vesilia aveva appoggiato sul cuore sussultante e la condusse lentamente verso le sue labbra. Si inchinò leggermente e disse:

- Marchese Gouròn de Got. Sarei lieto di avervi come mia ospite –

Vesilia, divenuta un tutt’uno col marmo del gradino su cui poggiava, non riuscì a rispondere. Il marchese, non volendo turbare eccessivamente la ragazza, si inchinò nuovamente per congedarsi. Fu allora che Vesilia ritrovò la sua voce:

- Aspettate –

Distolse la mente dal ricordo quando i suoi occhi si tuffarono dallo specchio in quelli di Marie:

- Ti prego – insistette Vesilia sottovoce – vedi che non riesco a parlare, figurati se posso recitare. Il pubblicò pazienterà. Non moriranno se per una sera non vedranno i miei seni – affermò decisa.

Marie con un sospiro spazientito l’accontentò.

- Non preoccuparti, nessuno ti licenzierà per questo –

- Lo spero davvero –

Bussarono alla porta:

- Tra venti minuti in scena! –

Entrambe sussultarono. Marie si precipitò fuori dal camerino urlando che ancora doveva vestire due ragazze, ma cento mani invisibili le bloccarono l’uscita e lei si fermò. Vesilia fu scossa da un brivido. Marie si voltò lentamente, soppesando le parole che stava per riferire alla sua piccola attrice:

- Mi è giunta voce della morte di Nanà, volevo sapere come stavi –

Vesilia non seppe cosa rispondere, non si era mai soffermata a riflettere su quell’oscuro avvenimento, non voleva affrontarlo:

- Non saprei dirtelo Marie. È come se avessi sempre saputo come sarebbe andata a finire –

- Mi sei mancata questi tre mesi Vesilia – cambiò discorso Marie

- Grazie Marie, ora però sono tornata –

La ragazza si sedette sullo sgabello e iniziò a truccarsi. Aprì il portacipria e tamponò la polvere rosata sulle gote. Il camerino non era ben illuminato, dalle pareti sudice l’umidità le azzannava le spalle nude. Vesilia, però, non faceva caso a quella topaia. Nel silenzio di quella stanza ella udiva un'altra musica, lontana...


Il marchese la fece entrare nel suo palco. Vesilia tenendo tra le dita i lembi della povera gonna si inchinò presentandosi. De Got le alzò il viso con un dito e la scrutò a lungo, immobile. La ragazza non aveva il coraggio di abbandonare quella posa, non voleva recar offesa al gentiluomo, ma sentì il viso diventar fuoco mentre quei due smeraldi erano poggiati su di lei. Il marchese finalmente tolse l’indice da sotto il mento di Vesilia e la invitò ad accomodarsi.

Quando il buio inondò la platea De Got le si avvicinò sussurrandole dietro l’orecchio:

- Dal vostro accento direi che non siete di queste terre –

Vesilia lottò per placare i brividi sul collo

- No, sono italiana –

L’ Ouverture coprì le loro parole

- Ah!qui a Parigi ci si diletta solo col tedesco e con l'inglese! Allora potreste tradurmi quel che mi sfugge... –

- È la prima volta che assistete a La Traviata? – chiese sorpresa Vesilia

- Ah, mia cara… – ed ella si sentì molto sciocca per aver posto una simile domanda a un

Marchese

La nuvola sognante si dissolse quando bussarono nuovamente :

- Tra quindici minuti in scena! – E Vesilia ancora teneva il piumino in mano avvolta dalle note

di Giuseppe Verdi. Una lacrima le rigò una guancia ma prontamente il trucco cancellò ogni emozione

- Bambolina ci sei? –

- Entra pure Bordenave – disse sarcastica Vesilia

- Ancora così? Vesille sbrigati- amava pronunciare quel nome alla francese - non puoi far attendere il tuo pubblico, gli ammiratori si stanno per gettare dai palchetti, tutti ti aspettano con ansia, è il tuo grande ritorno! –

- Lo so, lo so – volle zittirlo Vesilia, ma non poteva di certo placare l’impetuoso, logorroico Bordenave

- Un conte mi ha offerto…volevo dire, ti offrirebbe una cifra esorbitante se tu volessi allietarlo col tuo canto dopo lo spettacolo –

- Non canto già abbastanza sul palco? –

- Vesille! –

- No Bordenave, i patti erano chiari, sarò la tua prima donna, ti riempirò i teatri, il pubblico andrà in visibilio, ma non pretendere altro. E ora lasciami preparare –

Lo invitò con un gesto ad uscire e vide il viso del produttore rabbuiarsi. Bordenave era consapevole che Vesilia andava accontentata, era l’unica che in quel periodo riusciva a scatenare una calca di gentiluomini fuori al Variétés. Sforzandosi di non replicare, si avviò verso l’uscio:

- Penso che tu abbia saputo di Nanà. La mia piccola Nanà – pronunciò tristemente Bordenave e Vesilia si pentì di essere stata severa con lui.

- Sì, purtroppo- sospirò aggiungendo - capisci perché non voglio più avere a che fare con conti marchesi o principi. La mia vita è del teatro, non del primo portafogli che viene ad ammirarmi–

Bordenave la lasciò.

Vesilia si alzò dallo sgabello per andare a chiudere la porta ma si bloccò lì, con la mano stretta intorno alla maniglia. Appoggiò la fronte a quel freddo legno e scivolò a terra. Giaceva rannicchiata, tenendo il braccio levato per reggersi alla maniglia d’ottone, come se quella presa fosse l’unico filo che la collegasse alla realtà

- Violetta adesso finge di non amarlo più; ella preferisce salvare Alfredo dai pregiudizi dell’aristocrazia parigina piuttosto che essere felice insieme a lui tutta la vita –

- E come fa una ragazza come te a intendersi di lirica?- chiese con fare provocatorio il

Marchese De Got

- Mio padre faceva il macchinista alla Fenice di Venezia e riuscivo sempre ad intrufolarmi dietro le quinte o in piccionaia. Ho sempre amato l’Opera, sin da bambina –

- Ossia adesso – rise il marchese

- Che ne sapete voi della mia età?- chiese con un candido sorriso

- Me lo dice l’ingenuità che alberga tra le vostre palpebre

- Uh! – esclamò Vesilia, fingendo di non aver sentito la risposta. Gli occhi erano rapiti dalle luci del palcoscenico – Alfredo ha letto la lettera…ma ormai è tardi, Violetta sta per morire -

- Questa storia mi lascia continuamente perplesso. Nessun uomo di rispetto rinuncerebbe alla dignità e al patrimonio pur di avervi… scusate- disse De Got lasciando intendere che non aveva affatto sbagliato - volevo dire, pur di avere Violetta -

Vesilia incrociò il suo sguardo. Si sentiva senza forze, De Got era così irritante e anche tanto attraente allo stesso tempo. Vesilia non sapeva se dargli uno schiaffo o farsi baciare. In cuor suo sapeva che se egli avesse provato ad avvicinarsi con quelle labbra color cremisi lei non avrebbe potuto resistere, anzi quasi sperava…


- Tra dieci minuti in scena! – tuonò la solita voce accompagnata dal suono delle nocche sul legno della porta

Satin provò ad entrare nel camerino di Vesilia ma trovò un ostacolo

- Vesilia, stai bene? – riuscì ad aprire di poco la porta tanto da poter guardare nella stanza - Perché stai sul pavimento? Vesilia! –

Vesilia aprì gli occhi e guardò in su, verso Satin. Si rialzò e la lasciò entrare.

- Ancora non mi sono ripresa – rispose debolmente

- Bordenave capirà, anche lui è distrutto ma non possiamo iniziare più tardi –

- Ah, quella bestia mi farebbe andare in scena a tutte le ore. Infondo non lo sa –

- Certo che lo sa di Nanà…sei impazzita? –

- No, non parlavo di Nanà ma della…- e indugiò per un istante finchè Satin intervenne

- Pardon…non avevo capito -

- Solo a te Satin, neanche a Marie ho avuto il coraggio di dirlo –

- Sono l’unica a saperlo? Non immaginavo che ti fidassi così tanto di me –

- Beh, avevo scritto una lettera a Nanà per darle la notizia, ma, come sai, non mi ha risposto –

- Beata te che sai scrivere – scherzò Satin ma si accorse di non esser stata opportuna. Cercò di riprendersi – a proposito del nostro segreto… di lui hai notizie? Qualcuno gli avrà detto che sei tornata alla ribalta –

- Satin preferirei non rivederlo. Capirebbe la farsa e ciò non deve assolutamente accadere. Non ho alternativa, devo recitare sopra e sotto il palco –

- Sei folle Vesilia, Gouròn avrebbe fatto qualsiasi cosa per te! –

- Ah! Sognatrice! Dopo due anni di appuntamenti furtivi ho iniziato a capire qual era la realtà. Un’amante, solo quello sarei stata per lui...era così evidente, ma non riuscivo a rassegnarmi all’idea, ero sicura che tutto sarebbe cambiato, che il nostro amore sarebbe potuto uscire alla luce del sole…invece capii che non ci saremmo mai sposati e che io mi sarei trovata sola, senza soldi e con una… -

Bussarono alla porta.

- Tra cinque minuti in scena! – tuonò la voce ancor più vigorosa fuori la porta.

Marie fece capolino.

- Lo sappiamo, è ora – dissero le due ragazze in coro anticipando Marie,ma la costumista continuò:

- Veramente, Vesilia, c’è qualcuno per te, vieni con me Satin, hai l’acconciatura messa male –

- Chi è ? – chiese invano Vesilia mentre Satin usciva. Improvvisamente ricordò che doveva

finire di truccarsi, era tardissimo. Non fece in tempo a colorar le guance che qualcuno entrò. Vesilia vide il riflesso della persona dietro le sue spalle e quasi svenne. Gouròn corse verso di lei per sorreggerla.

- Ti faccio questo effetto? sono tre mesi che fuggi i miei appuntamenti. Perché Vesilia? –

- Ora no, ti prego, no. Non mi sento bene e devo andare in scena –

- Voglio solo sapere la verità – affermò freddamente

- Te l’ho detta –

- Ma per favore! Bordenave è venuto a trovarmi. È stato lui ad annunciarmi che stasera ti avrei trovata qui, come se i cartelloni già non l’avessero proclamato abbastanza. Ora posso parlarti di persona –

- Certo, parlarmi, ma sempre in luoghi nascosti, ove nessuno possa vederci – replicò amaramente

- Non ricominciare Vesilia! –

- Perfetto. Se qualcosa non riinizia vuol dire che è finita. Basta. Vattene da qui –

- No – urlò lui e lei gli tappò la bocca con la minuta mano.

- Bordenave mi ha portato una lettera, il giorno che è venuto nella mia residenza, una lettera di Satin. I toni erano molto preoccupati e alla fine c’era scritto che l’unico modo per risolvere questa situazione era che tu mi confessassi qualcosa. È vero Vesilia? Devi dirmi qualcosa che non so?

“Menomale che era un segreto” pensò Vesilia mentre Gouròn de Got continuava:

- Una cosa che sa lei e forse qualcun altro soltanto, ha detto che ho il diritto di sapere…ma

non ha voluto anticiparmi nulla, devo sentirlo da te. Avanti, sono qui, e forse è l’ultima

occasione che hai di vedermi – e quella frase congelò la sua voce.

Vesilia fu assalita da una domanda atroce. Non capiva se era una minaccia o se anche lui nascondesse davvero qualcosa.

- Ad agosto mi sposo, vado a vivere a Marsiglia - disse il marchese Gouròn De Got con lo stesso tono tranquillo di chi annuncia l’acquisto di due nuovi cavalli per la tenuta in campagna

- Ah – fece Vesilia con un filo di voce e lo sguardo fisso sul pavimento. Poi non resistette

oltre e lo strinse a sé. Lui la scostò:

- Avanti, voglio sapere questo stupido segreto e poi prometto che sparisco per sempre, così sarai contenta, è questo ciò che vuoi, altrimenti non saresti sparita per tre mesi –

- Come ti sbagli Gouròn. Non sarò affatto felice senza di te, ma se avessi lasciato questa storia andare avanti, ah! Allora sì che avrei sofferto –

- IN SCENA, IN SCENA – Quasi venne distrutta la porta del camerino. Vesilia guardò il pendolo.

- Non vai via da qui finchè non mi confessi tutto – la minacciò de Got

- Ti prego vediamoci dopo lo spettacolo! –

- No! – esclamò sbraitando – ora! –

Vesilia si fece coraggio e parlò tutto d’un fiato:

- Aspettavo una bambina, ed era sicuramente tua, vorrei sottolinearlo prima che tu possa farmi una stupida domanda- inspirò forte perché sentiva mancare l’aria – ed ho abortito. Nanà un giorno mi raccontò di averlo fatto. Così sono andata in quella… casa…a Montmartre – prese una pausa

- Lo so che potevo morire, che era pericoloso, ma avevo più paura di ritrovarmi sola, senza soldi, a dormire per strada, senza poter lavorare a teatro, con una bimba da accudire. Nessuno mi avrebbe voluto in questa città spietata – aspettò un secondo e lo disse – Neanche tu –

Gouròn sedette sulla cassapanca, appoggiò la fronte sui palmi delle mani. Vesilia si alzò e accarezzò i suoi capelli neri, perdendo di vista le dita nella folta chioma. Gouròn si riprese subito da quel momento di debolezza, prese dalla tasca un piccolo libro di poesie che Vesilia le aveva regalato due anni prima

- Grazie ma non mi interessa più imparare l’italiano – e lo mise nelle mani minuscole di Vesilia. Pronunciò quelle parole senza alcun sentimento, impassibile. Indossò il cilindro e la lasciò con un secco addio, senza richiudere la porta aperta. Vesilia era pietrificata, non riusciva a vedere i contorni di quell’addio a causa delle lacrime. Dopo un istante eterno scacciò via l'umido dagli occhi e dalle guance: la folla dalla platea stava gridando entusiasta il suo nome. Doveva andare in scena.

Il giorno delle nozze al marchese arrivò un inaspettato regalo. Lo aprì nella sua stanza mentre finivano di vestirlo per la cerimonia. Era accompagnato da un biglietto:

vai a pagina XXVII.

Null’altro.

Era un libricino di poesie di Pascoli a lui noto. Andò alla pagina indicata con una frenetica calma. La parte superiore della pagina era stata strappata. Lesse solo gli ultimi quattro versi rimasti, in italiano:

Il vento soffia e nevica la frasca,

e tu non torni ancora al tuo paese!

Quando partisti, come son rimasta!

Come l’aratro in mezzo al maggese.


martedì 30 giugno 2009

La telefonata

- Buon giorno, biglietto prego- chi parla è una signor...ina, beh avrà a malapena trent'anni ma già le rughe si affacciano sul mondo esterno. Nessuna crema le ha ancora sconfitte e tronfie cercano di menarsi le arie sovrastandosi l'una con l'altra. La signorina ha capelli scuri raccolti malamente in una frettolosa crocchia (non le ha suonato la sveglia?) Gli occhiali da vista le scendono fastidiosamente lungo il naso adunco e ogni volta sembra che stiano lì lì per cadere. Ella disinvolta li riporta continuamente al punto di partenza, inconsapevole di aver trasformato quel gesto in un tic. Le labbra sono pressappoco inesistenti ma le insistenti applicazioni di rossetto le hanno rese di un bel rosso acceso. Parliamo di spennellate su spennellate da far invidia alle stoffe vermiglie che vestono i personaggi di Michelangelo .
La divisa estiva dei dipendenti delle Ferrovie non dà modo ai suoi indossatori di far traspirare la pelle, e questa è la pena che sta scontando anche la protagonista della nostra breve storia. Rivoli di sudore le scendono sulla fronte e gareggiano al chi arriva primo fino alle sopracciglia, da lì poi ogni rigo prende la sua strada. Una goccia si ferma, un'altra svolta e scivola lungo la tempia, oppure dalla tempia corre giù fino alla guancia. Questi sono i giochi visibili offerti a un'osservatore esterno, ma è facile ipotizzare che anche in luoghi imperscrutabili si stessero svolgendo diverse gare. Tutta questa competizione non poteva non circondare la dipendente delle Ferrovie di un insopportabile odore acre. Dio salvi chi ha inventato la pubblicità del deodorante. Ella non sembra accorgersi della ionosfera entro la quale si muove: disinvolta controlla che i viaggiatori non derubino le Ferrovie e con una certa diffidenza riconsegna il biglietto mostratole. Il trapasso dalla sua mano a quella del passeggero avviene lentamente con un graduale innalzamento del sopracciglio destro a voler redarguire il viandante "Confessa la tua frode finché sei in tempo marrano!". Ma il passeggero è indifferente di fronte a tanta scrupolosità e si riappropria del titolo di viaggio senza riconoscere la diligenza della signorina M (sì la chiameremo M), la quale indispettita dalla sua autorità non riconosciuta si dirige verso una nuova carrozza. Si aprono le porte scorrevoli e un fastidioso rumore telefonico disturba il classico brusio da vagone poco affollato. Imbarazzata al voltar simultaneo delle teste incuriosite la signorina M si affanna a cercare l'aggeggio metallico che la reclama. L'intera borsetta vibra in una frenetica danza spostando ritmicamente ogni oggetto contenuto all'interno.

-Pronto?- chiede con voce squillante. I volti si sporgono verso di lei corrucciati
-Pronto?- ripete abbassando il tono di vari decibel - Corrado sto lavorando ti richiamo io - pausa. I viaggiatori distolgono l'attenzione, non è nulla di interessante - Perché no? Aspetta un momento!- Il capotreno è appena entrato nella carrozza. La signorina M. prontamente nasconde il cellulare dietro la schiena e prosegue la sfilata reclamando i biglietti. L'occhio destro ha perso la sua funzione ammonitrice, adesso osserva di sbieco gli spostamenti dell'alto funzionario. "Sta venendo qui, aiuto!" pensa M. tremante. Sudore freddo e caldo si mescolano in un brivido. "No, l'ho scampata!" Il capotreno si era rivolto a un passeggero facoltoso invitandolo in prima classe.
- Corrado - sussurra nuovamente al telefono - perché non posso richiamarti io? Dai ti chiamo tra sei carrozze! - esclama nascosta dietro allo schienale di un sedile. Qualcuno è tornato a osservarla incuriosito. La signorina M. si avvicina ad altre poltrone. Un viaggiatore le consegna il biglietto sua sponte e torna a guardare oltre il finestrino. M. lo afferra e continua a discorrere al cellulare. Il viaggiatore dopo pochi istanti si volta nuovamente per riprendere il biglietto ma nota che la donna è divenuta di marmo. Prova a sfilarle il biglietto dalla mano ma M. non molla la presa. Il povero pigmalione guarda verso la sua statua innervosito.

- Co...cosa vuol dire che "è finita" - M. inizia a balbettare. Il corpo è rigido, si è trasformata in sola voce. Il pigmalione avverte una risposta lontana del tipo - Vuol dire che è finita - Gli occhiali di M. sono scesi fino alla punta del naso e sembrano trattenersi dal cadere per rispetto di quel momento teso. Il pigmalione percepisce il dolore della signorina M. così come altri diversi passeggeri della carrozza.
- Ma no ... non puoi lasciarmi così - la voce è tremula, spenta. Gli occhi non reagiscono allo stimolo del paesaggio che le scorre davanti. Fissano un punto ignoto nell'universo. Il pigmalione coglie un'altra frase dell'altra parte della cornetta - M. é così. Non posso fingere ancora. Non sono più innamorato di te. Non più... - La signorina M. a quel punto farfuglia una sequela di parole quali la casa, il cane, mia madre, il vestito, il...bambino. L'uomo avverte quella parola e dà in escandescenza tuonando come Giove: - Tu non volevi un figlio! - Quella risposta sortisce nella signorina M. l'effetto di una scarica elettrica. Sbatte tre volte le palpebre e si rianima. Lascia cadere il cellulare a terra. Il pigmalione non ha il suo biglietto indietro: essendo la prima cosa che M. si ritrova per le mani viene stracciata in una frazione di secondo. Si riaggiusta spavalda gli occhiali, increspa il viso, raccoglie il cellulare e inizia a decantare una serie di terzine di improperi parolacce e insulti. Il capotreno smette di discorrere col facoltoso passeggero e con un balzo è addosso a M. e prova a strapparle il cellulare. Le ossute mani della signorina sono dure a cedere, il capotreno cerca di placcarla ma viene morso. M. veloce come una lince si rimpossessa del cellulare e corre verso le porte della carrozza - Brutto figlio di una megera rognosa come è tua m... - e via col tango. Non è necessario continuare. L'intero treno afferra il concetto. La gente maligna ne gode di una tal scena, contenta di aver dato una smossa al noioso viaggio. Solo una ragazza sembra compatirla e scoppia a piangere. Chissà quali ricordi quella situazione ha riportato a galla.
Il capotreno, vinto il dolore, agita le natiche come un gatto pronto a eseguire un nuovo balzo, ma viene fermato dal pigmalione. - mi permetta. Signorina - esclama risoluto avvicinandosi - mi dia il cellulare - - No! Mai! non ho finito di dirgli quanto è ... - l'uomo dall'altra parte del telefono approfitta di quel momento di distrazione di M. per ricoprirla con una nuova raffica di insulti. Il pigmalione, deciso, prende il telefono. Aspetta cortesemente che il signore finisca la sua lista della spesa e pacatamente dice: - Lasciare una donna per telefono, bella o brutta che sia, simpatica o antipatica, intelligente o stupida, è il gesto più vile che un uomo possa compiere. Oltre tutto durante l'orario di lavoro. Ma la cosa che più mi ha innervosito è che Lei, mio caro, non ha calcolato la reazione della sua fidanzata, ehm volevo dire ex, la quale ha causato diversi feriti gravi, crisi isteriche in giovani donne, scoppio di emicrania al sottoscritto, pandemonio generale. Sono lieto di comunicarle che, in facoltà di Avvocato, procederò nei suoi confronti, si aspetti una mia lettera: ho tutti i testimoni necessari per farle passare davvero delle belle rogne. Arrivederci in tribunale - conclude con tono asciutto. Il volto è soddisfatto. La carrozza esplode in un giubilo generale, i cappelli si levano in alto, come se il pigmalione avesse invitato tutti a un party in piscina. L'ovazione raggiunge il suo culmine con un abbraccio della signorina M. al suo salvatore. - Farà davvero tutto questo per me? Una sconosciuta? - Gli occhi speranzosi da cerbiatto si posano sul suo Messia. Il pigmalione sfodera un sorriso rassicurante, da tipico avvocato della City: - Mia cara...assolutamente no. Io sono solo un operatore ecologico che è appena andato in pensione, lo so che l'abbigliamento vi ha tratto in inganno ma sto andando a un ricevimento. Comunque non si preoccupi, vedrà che il figlio della megera richiamerà presto per scusarsi... -
TRIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIINNNNNNNNNNNN

mercoledì 24 giugno 2009

IL RICORDO ... prima parte

C'era un tempo in cui Gig ed io andavamo a comprare le caramelle dal tipo buffo all'angolo della strada...Benny. Beniamino, questo era il nome di battesimo, lasciava senza indugi che ne prendessimo il doppio di quelle che potevamo permetterci. Così tornavo nel nascondiglio con Gig e le tasche straripanti di dolcetti variopinti multigusti. Ne possedevo tantissime perchè Gig incedeva con un buffo passo ondeggiante e le caramelle cadevano a ritmo cadenzato dai suoi fianchi. Lui non se ne accorgeva ed io le raccoglievo divertita. Ovviamente non le mangiavo, no no, le conservavo perchè dopo un mese le mostravo a Gig per canzonarlo sulla quantità di caramelle che avrebbe sprecato se io non le avessi raccolte... Mi venne allora in mente un gioco che avrebbe reso più attento e responsabile Gig e avrebbe fatto felice qualcun altro. Tutte le "caramelle cadenti" che rimanevano in ottime condizioni venivano messe in sacchettini trasparenti da mia madre e portate da noi all'ospedale di San Sebastiano dove lavorava il padre di Gig. La nostra prima visita al reparto infantile fu divertente ma mi lasciò una strana sensazione che a quella età ancora non sapevo come definire. Da quel momento in poi, ogni qualvolta dovevamo recarci in ospedale Gig indossava una camicia cachi (ci stavamo avvicinando all'estate) con i pantaloni blu di cotone ben stirati. Amava darsi un tono in simili occasioni. Ammetto che provavo un leggero fastidio nel vederlo tutto curato. Mia madre aveva ben capito il perchè del mio rifiuto all'eleganza, e mi lasciava indossare i soliti vestiti o addirittura quelli del giorno prima. Magari con una macchia di sugo, "Mi sta bene la semplicità ma la sporcizia no, su Dani. Porti loro inutili germi" "Va bene mamma" sapeva sempre come convincermi senza che potessi replicare. Ah dimenticavo. Il mio nome è Dani. Ma si legge Danài e il perchè vattelapesca. Insomma, odiavo mostrare a quei bambini quanto in quell'istante fossi più fortunata di loro. "Bruttine" ,ecco la risposta più soddisfacente di mia madre quando la interrogavo sul come fossero le malattie dei miei nuovi amici. Non voleva parlarne, e infondo la capivo, io stessa ero curiosa ma impaurita. Quei visi emergevano dai cuscini più pallidi delle bianche lenzuola e ti regalavano sorrisi che scaldavano fin dentro le vene.
Accadde una mattina di luglio, mentre camminavo per il corridoio accompagnando ogni mio passo con un saluto agli infermieri. Ormai ci aspettavano con ansia tutti gli operatori, erano molto divertiti dal modo di fare mio e di Gig. Rivolsi lo sguardo all'uscio di una porta doveva sostava un'infermiera, non appena pronunciai l'ennesimo buon giorno ella si scostò portando via un carrello e lasciando intravedere un ragazzo adagiato su un letto. Aveva all'incirca dieci o undici anni e si chiamava Colin. Mi incantai a osservarlo, era bello. Lo ricordo così non potrei usare nessun'altra definizione. Non ebbi il coraggio di entrare, avevo il terrore di disturbarlo. Mia madre intuì il mio cambiamento, andavo all'ospedale molto spesso, eppure riuscì a frenare la sua curiosità. Avevo un forte desiderio di conoscerlo ma ogni volta che mi avvicinavo alla sua porta mi assaliva un forte timore. Rimanevo così a osservarlo dal corridoio, cercando di essere il più discreta possibile, potevo stare quanto volevo, nessuno dell'equipe medica era scocciato dalla mia presenza. Notai che i medici lo sottoponevano a continue trasfusioni di sangue, aveva il braccio decorato dai cerotti. Sentii Colin lamentarsi di quel braccio. Fu la prima cosa che gli sentii pronunciare "Che noia questi cerotti". Mi suonò strana la sua lamentela, la pronunciò distaccato, non c'era tristezza nella sua voce. Quel tono piatto e pacato mi turbò. Tornai a casa e chiesi a mamma qualche soldo. Inarcò il sopracciglio destro, sapeva che era qestione di tempo e le avrei detto di lì a breve cosa ci avrei fatto. Il giorno dopo mi recai nuovamente all'ospedale portando con me una scatola di cerotti colorati pieni di pupazzetti. Mi feci coraggio ed entrai. Colin non sembrava sorpreso, si era abituato alla mia presenza, mi confessò in seguito che era impaziente di conoscermi. Mi avvicinai al suo letto e con un sorriso imbarazzato porsi il mio pacchetto di cerotti. Colin lo scartò e mi disse "Pensavo fossero le caramelle che tu e il tuo amico portate a tutto l'ospedale, tranne che a me". Provai a rispondere col viso paonazzo ma lui mi anticipò ridendo e confessò che non amava le caramelle. Mi uscì un flebile "davvero?". Colin aprì il pacchetto e scoppiò in una fragorosa risata asserendo che quei cerotti erano fin peggio dei precedenti. Non ci rimasi male di quell'affermazione, era stato un enorme piacere sentirlo ridere così di gusto. Alla risata seguì un brevissimo silenzio che lui ruppe con un sincero grazie. E' vividissimo il ricordo in me di quel grazie, del modo in cui lo disse inclinando la testa di lato con lo sguardo fisso al pacchetto che continuava a rigirare fra le mani. I profondi occhi neri erano fermi e riconoscenti. Finalmente potevo osservarlo da vicino. I capelli castani scendevano fino le spalle. Le labbra erano fini e molto chiare, il naso minuto, era tutto talmente piccolo e grazioso che non vedevo l'ora di tornare a casa per ridisegnarlo e mostrarlo a mia madre. Sentii che mi voleva bene, e anche io gliene volevo