martedì 30 giugno 2009

La telefonata

- Buon giorno, biglietto prego- chi parla è una signor...ina, beh avrà a malapena trent'anni ma già le rughe si affacciano sul mondo esterno. Nessuna crema le ha ancora sconfitte e tronfie cercano di menarsi le arie sovrastandosi l'una con l'altra. La signorina ha capelli scuri raccolti malamente in una frettolosa crocchia (non le ha suonato la sveglia?) Gli occhiali da vista le scendono fastidiosamente lungo il naso adunco e ogni volta sembra che stiano lì lì per cadere. Ella disinvolta li riporta continuamente al punto di partenza, inconsapevole di aver trasformato quel gesto in un tic. Le labbra sono pressappoco inesistenti ma le insistenti applicazioni di rossetto le hanno rese di un bel rosso acceso. Parliamo di spennellate su spennellate da far invidia alle stoffe vermiglie che vestono i personaggi di Michelangelo .
La divisa estiva dei dipendenti delle Ferrovie non dà modo ai suoi indossatori di far traspirare la pelle, e questa è la pena che sta scontando anche la protagonista della nostra breve storia. Rivoli di sudore le scendono sulla fronte e gareggiano al chi arriva primo fino alle sopracciglia, da lì poi ogni rigo prende la sua strada. Una goccia si ferma, un'altra svolta e scivola lungo la tempia, oppure dalla tempia corre giù fino alla guancia. Questi sono i giochi visibili offerti a un'osservatore esterno, ma è facile ipotizzare che anche in luoghi imperscrutabili si stessero svolgendo diverse gare. Tutta questa competizione non poteva non circondare la dipendente delle Ferrovie di un insopportabile odore acre. Dio salvi chi ha inventato la pubblicità del deodorante. Ella non sembra accorgersi della ionosfera entro la quale si muove: disinvolta controlla che i viaggiatori non derubino le Ferrovie e con una certa diffidenza riconsegna il biglietto mostratole. Il trapasso dalla sua mano a quella del passeggero avviene lentamente con un graduale innalzamento del sopracciglio destro a voler redarguire il viandante "Confessa la tua frode finché sei in tempo marrano!". Ma il passeggero è indifferente di fronte a tanta scrupolosità e si riappropria del titolo di viaggio senza riconoscere la diligenza della signorina M (sì la chiameremo M), la quale indispettita dalla sua autorità non riconosciuta si dirige verso una nuova carrozza. Si aprono le porte scorrevoli e un fastidioso rumore telefonico disturba il classico brusio da vagone poco affollato. Imbarazzata al voltar simultaneo delle teste incuriosite la signorina M si affanna a cercare l'aggeggio metallico che la reclama. L'intera borsetta vibra in una frenetica danza spostando ritmicamente ogni oggetto contenuto all'interno.

-Pronto?- chiede con voce squillante. I volti si sporgono verso di lei corrucciati
-Pronto?- ripete abbassando il tono di vari decibel - Corrado sto lavorando ti richiamo io - pausa. I viaggiatori distolgono l'attenzione, non è nulla di interessante - Perché no? Aspetta un momento!- Il capotreno è appena entrato nella carrozza. La signorina M. prontamente nasconde il cellulare dietro la schiena e prosegue la sfilata reclamando i biglietti. L'occhio destro ha perso la sua funzione ammonitrice, adesso osserva di sbieco gli spostamenti dell'alto funzionario. "Sta venendo qui, aiuto!" pensa M. tremante. Sudore freddo e caldo si mescolano in un brivido. "No, l'ho scampata!" Il capotreno si era rivolto a un passeggero facoltoso invitandolo in prima classe.
- Corrado - sussurra nuovamente al telefono - perché non posso richiamarti io? Dai ti chiamo tra sei carrozze! - esclama nascosta dietro allo schienale di un sedile. Qualcuno è tornato a osservarla incuriosito. La signorina M. si avvicina ad altre poltrone. Un viaggiatore le consegna il biglietto sua sponte e torna a guardare oltre il finestrino. M. lo afferra e continua a discorrere al cellulare. Il viaggiatore dopo pochi istanti si volta nuovamente per riprendere il biglietto ma nota che la donna è divenuta di marmo. Prova a sfilarle il biglietto dalla mano ma M. non molla la presa. Il povero pigmalione guarda verso la sua statua innervosito.

- Co...cosa vuol dire che "è finita" - M. inizia a balbettare. Il corpo è rigido, si è trasformata in sola voce. Il pigmalione avverte una risposta lontana del tipo - Vuol dire che è finita - Gli occhiali di M. sono scesi fino alla punta del naso e sembrano trattenersi dal cadere per rispetto di quel momento teso. Il pigmalione percepisce il dolore della signorina M. così come altri diversi passeggeri della carrozza.
- Ma no ... non puoi lasciarmi così - la voce è tremula, spenta. Gli occhi non reagiscono allo stimolo del paesaggio che le scorre davanti. Fissano un punto ignoto nell'universo. Il pigmalione coglie un'altra frase dell'altra parte della cornetta - M. é così. Non posso fingere ancora. Non sono più innamorato di te. Non più... - La signorina M. a quel punto farfuglia una sequela di parole quali la casa, il cane, mia madre, il vestito, il...bambino. L'uomo avverte quella parola e dà in escandescenza tuonando come Giove: - Tu non volevi un figlio! - Quella risposta sortisce nella signorina M. l'effetto di una scarica elettrica. Sbatte tre volte le palpebre e si rianima. Lascia cadere il cellulare a terra. Il pigmalione non ha il suo biglietto indietro: essendo la prima cosa che M. si ritrova per le mani viene stracciata in una frazione di secondo. Si riaggiusta spavalda gli occhiali, increspa il viso, raccoglie il cellulare e inizia a decantare una serie di terzine di improperi parolacce e insulti. Il capotreno smette di discorrere col facoltoso passeggero e con un balzo è addosso a M. e prova a strapparle il cellulare. Le ossute mani della signorina sono dure a cedere, il capotreno cerca di placcarla ma viene morso. M. veloce come una lince si rimpossessa del cellulare e corre verso le porte della carrozza - Brutto figlio di una megera rognosa come è tua m... - e via col tango. Non è necessario continuare. L'intero treno afferra il concetto. La gente maligna ne gode di una tal scena, contenta di aver dato una smossa al noioso viaggio. Solo una ragazza sembra compatirla e scoppia a piangere. Chissà quali ricordi quella situazione ha riportato a galla.
Il capotreno, vinto il dolore, agita le natiche come un gatto pronto a eseguire un nuovo balzo, ma viene fermato dal pigmalione. - mi permetta. Signorina - esclama risoluto avvicinandosi - mi dia il cellulare - - No! Mai! non ho finito di dirgli quanto è ... - l'uomo dall'altra parte del telefono approfitta di quel momento di distrazione di M. per ricoprirla con una nuova raffica di insulti. Il pigmalione, deciso, prende il telefono. Aspetta cortesemente che il signore finisca la sua lista della spesa e pacatamente dice: - Lasciare una donna per telefono, bella o brutta che sia, simpatica o antipatica, intelligente o stupida, è il gesto più vile che un uomo possa compiere. Oltre tutto durante l'orario di lavoro. Ma la cosa che più mi ha innervosito è che Lei, mio caro, non ha calcolato la reazione della sua fidanzata, ehm volevo dire ex, la quale ha causato diversi feriti gravi, crisi isteriche in giovani donne, scoppio di emicrania al sottoscritto, pandemonio generale. Sono lieto di comunicarle che, in facoltà di Avvocato, procederò nei suoi confronti, si aspetti una mia lettera: ho tutti i testimoni necessari per farle passare davvero delle belle rogne. Arrivederci in tribunale - conclude con tono asciutto. Il volto è soddisfatto. La carrozza esplode in un giubilo generale, i cappelli si levano in alto, come se il pigmalione avesse invitato tutti a un party in piscina. L'ovazione raggiunge il suo culmine con un abbraccio della signorina M. al suo salvatore. - Farà davvero tutto questo per me? Una sconosciuta? - Gli occhi speranzosi da cerbiatto si posano sul suo Messia. Il pigmalione sfodera un sorriso rassicurante, da tipico avvocato della City: - Mia cara...assolutamente no. Io sono solo un operatore ecologico che è appena andato in pensione, lo so che l'abbigliamento vi ha tratto in inganno ma sto andando a un ricevimento. Comunque non si preoccupi, vedrà che il figlio della megera richiamerà presto per scusarsi... -
TRIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIINNNNNNNNNNNN

mercoledì 24 giugno 2009

IL RICORDO ... prima parte

C'era un tempo in cui Gig ed io andavamo a comprare le caramelle dal tipo buffo all'angolo della strada...Benny. Beniamino, questo era il nome di battesimo, lasciava senza indugi che ne prendessimo il doppio di quelle che potevamo permetterci. Così tornavo nel nascondiglio con Gig e le tasche straripanti di dolcetti variopinti multigusti. Ne possedevo tantissime perchè Gig incedeva con un buffo passo ondeggiante e le caramelle cadevano a ritmo cadenzato dai suoi fianchi. Lui non se ne accorgeva ed io le raccoglievo divertita. Ovviamente non le mangiavo, no no, le conservavo perchè dopo un mese le mostravo a Gig per canzonarlo sulla quantità di caramelle che avrebbe sprecato se io non le avessi raccolte... Mi venne allora in mente un gioco che avrebbe reso più attento e responsabile Gig e avrebbe fatto felice qualcun altro. Tutte le "caramelle cadenti" che rimanevano in ottime condizioni venivano messe in sacchettini trasparenti da mia madre e portate da noi all'ospedale di San Sebastiano dove lavorava il padre di Gig. La nostra prima visita al reparto infantile fu divertente ma mi lasciò una strana sensazione che a quella età ancora non sapevo come definire. Da quel momento in poi, ogni qualvolta dovevamo recarci in ospedale Gig indossava una camicia cachi (ci stavamo avvicinando all'estate) con i pantaloni blu di cotone ben stirati. Amava darsi un tono in simili occasioni. Ammetto che provavo un leggero fastidio nel vederlo tutto curato. Mia madre aveva ben capito il perchè del mio rifiuto all'eleganza, e mi lasciava indossare i soliti vestiti o addirittura quelli del giorno prima. Magari con una macchia di sugo, "Mi sta bene la semplicità ma la sporcizia no, su Dani. Porti loro inutili germi" "Va bene mamma" sapeva sempre come convincermi senza che potessi replicare. Ah dimenticavo. Il mio nome è Dani. Ma si legge Danài e il perchè vattelapesca. Insomma, odiavo mostrare a quei bambini quanto in quell'istante fossi più fortunata di loro. "Bruttine" ,ecco la risposta più soddisfacente di mia madre quando la interrogavo sul come fossero le malattie dei miei nuovi amici. Non voleva parlarne, e infondo la capivo, io stessa ero curiosa ma impaurita. Quei visi emergevano dai cuscini più pallidi delle bianche lenzuola e ti regalavano sorrisi che scaldavano fin dentro le vene.
Accadde una mattina di luglio, mentre camminavo per il corridoio accompagnando ogni mio passo con un saluto agli infermieri. Ormai ci aspettavano con ansia tutti gli operatori, erano molto divertiti dal modo di fare mio e di Gig. Rivolsi lo sguardo all'uscio di una porta doveva sostava un'infermiera, non appena pronunciai l'ennesimo buon giorno ella si scostò portando via un carrello e lasciando intravedere un ragazzo adagiato su un letto. Aveva all'incirca dieci o undici anni e si chiamava Colin. Mi incantai a osservarlo, era bello. Lo ricordo così non potrei usare nessun'altra definizione. Non ebbi il coraggio di entrare, avevo il terrore di disturbarlo. Mia madre intuì il mio cambiamento, andavo all'ospedale molto spesso, eppure riuscì a frenare la sua curiosità. Avevo un forte desiderio di conoscerlo ma ogni volta che mi avvicinavo alla sua porta mi assaliva un forte timore. Rimanevo così a osservarlo dal corridoio, cercando di essere il più discreta possibile, potevo stare quanto volevo, nessuno dell'equipe medica era scocciato dalla mia presenza. Notai che i medici lo sottoponevano a continue trasfusioni di sangue, aveva il braccio decorato dai cerotti. Sentii Colin lamentarsi di quel braccio. Fu la prima cosa che gli sentii pronunciare "Che noia questi cerotti". Mi suonò strana la sua lamentela, la pronunciò distaccato, non c'era tristezza nella sua voce. Quel tono piatto e pacato mi turbò. Tornai a casa e chiesi a mamma qualche soldo. Inarcò il sopracciglio destro, sapeva che era qestione di tempo e le avrei detto di lì a breve cosa ci avrei fatto. Il giorno dopo mi recai nuovamente all'ospedale portando con me una scatola di cerotti colorati pieni di pupazzetti. Mi feci coraggio ed entrai. Colin non sembrava sorpreso, si era abituato alla mia presenza, mi confessò in seguito che era impaziente di conoscermi. Mi avvicinai al suo letto e con un sorriso imbarazzato porsi il mio pacchetto di cerotti. Colin lo scartò e mi disse "Pensavo fossero le caramelle che tu e il tuo amico portate a tutto l'ospedale, tranne che a me". Provai a rispondere col viso paonazzo ma lui mi anticipò ridendo e confessò che non amava le caramelle. Mi uscì un flebile "davvero?". Colin aprì il pacchetto e scoppiò in una fragorosa risata asserendo che quei cerotti erano fin peggio dei precedenti. Non ci rimasi male di quell'affermazione, era stato un enorme piacere sentirlo ridere così di gusto. Alla risata seguì un brevissimo silenzio che lui ruppe con un sincero grazie. E' vividissimo il ricordo in me di quel grazie, del modo in cui lo disse inclinando la testa di lato con lo sguardo fisso al pacchetto che continuava a rigirare fra le mani. I profondi occhi neri erano fermi e riconoscenti. Finalmente potevo osservarlo da vicino. I capelli castani scendevano fino le spalle. Le labbra erano fini e molto chiare, il naso minuto, era tutto talmente piccolo e grazioso che non vedevo l'ora di tornare a casa per ridisegnarlo e mostrarlo a mia madre. Sentii che mi voleva bene, e anche io gliene volevo

IL RICORDO...seconda parte

Ah! Chissà se mi ero innamorata per la prima volta. Quello non lo ricordo. Ancora oggi ho difficoltà a ricordarmi di quando mi innamoravo da ragazza. Quando mi piaceva qualcuno la mia persona continuava la vita regolare mentre nei pensieri era impressa l'immagine del ragazzo. Era come se la mia testa volesse indagarlo, conoscerlo, immaginarlo per capirlo fino in fondo, come per preservarsi da brutte sorprese. E poi chi lo sa quando era davvero amore e quando no.

Non riuscivo a distogliere gli occhi da quei capelli castani che scendevano disordinati sulla fronte, Colin li scostava e come l'edera agitata da una brezza serale ritornavano al loro posto. Potessi toccarli, pensavo. E fu ciò che feci. Con la sfrontata delicatezza di una bambina allungai la mano e sentii come erano morbidi mentre li premevo verso la sua fronte. Colin non protestò, e non fece domande ma rimase compiaciuto del mio gesto. I capelli erano per lui fonte di orgoglio. Ci giocai per cinque interminabili secondi. Ritrassi la mano velocemente, stordita, come se mi fossi scottata. Colin chiese il mio nome, e chiacchierammo fino alla fine dell'ora delle visite. Quando l'inserviente mi invitò a uscire obbedì di malavoglia e mi trascinai con le gambe fino alla porta. Arrivata all'uscio mi rigirai per salutarlo e vidi Colin portare il pacchetto dei cerotti fino al viso per poggiarci sopra le labbra. Sentii brividi per tutto il corpo, ero al settimo cielo. "Piano terra?"chiesi raggiante all'infermiera una volta innanzi all'ascensore. Provai un senso di felicità a me ignoto, volevo correre da lui per abbracciarlo ma le porte si erano appena chiuse alle mie spalle e ogni tentativo di evasione sarebbe stato inutile. La cosa che meno capivo di tutte era la gelosia che Gig iniziò a manifestare nei miei confronti. Come poteva essere così egoista? Lui aveva tutto dalla vita e inoltre pretendeva che la mia amicizia fosse indirizzata solo a lui? Provai a spiegargli che ciò che mi legava a Colin era qualcosa di stranamente diverso e che nulla avrebbe scalfito il bel rapporto tra noi due ma Gig fece una smorfia al suono di quelle parole e se ne andò via lasciandomi davanti il negozio di Benny con le mie caramelle in tasca. Ripensandoci bene, la persona che non aveva capito un bel nulla ero proprio io. Ma cosa ne potevo sapere dal basso dei miei undici anni quali emozioni agitassero Gig, figuriamoci! Non comprendevo le mie! Gig non si fece vedere per una settimana, è brutto ammetterlo ma non mi mancò quanto mi aspettavo. Le ore passate accanto a Colin mi riempivano le giornate intere. Ma poco prima della sua partenza per il mare Gig mi venne a trovare. Non voleva passare del tempo con me, il suo scopo era un altro."Avvisarmi". Mi disse che il suo consiglio non era mosso da alcuna invidia, fu molto attento a precisare questo punto, così mi suggerì di non andare più a trovare Colin tutti i giorni, che stavo esagerando. A quel punto mi arrabbiai e replicai che ero stufa di tutte quelle storie e che preferivo che fosse sincero e ammettesse di essere geloso. Gig sbuffò ed esclamò seccamente: "Non voglio vederti piangere!" Girò i tacchi e scrollando le spalle uscì dal mio giardino. Il tonfo del cancelletto che si richiudeva mi riportò alla realtà.

IL RICORDO ... terza e ultima parte

L'estate passò come un razzo e ci fu la scuola, le medie, l'inizio di una nuova vita, nuove amicizie, nuove esperienze. Insomma tutto nuovo. A parte quella frase che ormai aveva messo le ragnatele nella mia testa. "Non voglio vederti a piangere". Avevo costantemente cercato di non ricordarla, di camuffarla con un'altra frase, "convoglio solerte a correre", avevo impiegato un giorno per trovare un'alternativa da ripetermi quando il viso di Gig mi tornava alla memoria. Sì sì, non mi chiedete perché ma Gig disse Convoglio solerte a correre. Eppure arrivò la Vigilia di Natale e quella frase spazzò via ogni mio mascheramento. Andai all'ospedale con un regalo maldestramente impacchettato da me perchè mia madre era troppo impegnata coi suoi fritti. Camminai per il corridoio immaginando come giustificare quell'orrore, svoltai l'angolo, ed entrai. Il letto era vuoto. "E' guarito!" pensai. Era finito il mio conto alla rovescia, finalmente potevamo passare il tempo nel mio giardino o giù al molo dei pescatori, lo avrei portato nel mio nascondiglio e gli avrei fatto conoscere Gig per poi notare fiera che insieme si trovavano proprio bene. Cercai l'infermiera per sapere dove fosse Colin ma lei mi trascinò fino all'ascensore. "Convoglio solerte a correre" spazzai via la frase e mi concentrai sul viso inquieto dell'inserviente. Spostava il peso da una gamba all'altra nervosamente. "Non voglio vederti a piangere" E in un momento il giorno divenne notte, le allodole cantavano alla sera e i gufi annunciavano il mattino. Il mio viso divenne irriconoscibile dietro le lacrime. Uscii dall'ospedale completamente sconvolta, frastornata. Strappai la carta e guardai il mio regalo, una cornice con la nostra foto. Gig mi aveva avvertito, ma come potevo rinunciare a quei riccioli. Corsi da Gig, lui era in veranda, mi vide arrivare e mi corse incontro. Mi strinse forte e ascoltò i miei singhiozzi e i miei sfoghi. Avrei voluto vederlo un'ultima volta. Avrei voluto dirgli quanto era importante per me. Tra i giochi e le risa non avevo mai avuto l'occasione di dirglielo. E il Natale passò ma non andò via dalla mia memoria. Colin mi segue ovunque. Ho cura della nostra foto la porto sempre con me. Molte sere se non riesco ad addormentarmi la prendo e mi ci cullo tenendola al petto. Ora ho due bambine e sono gemelle. Sono l'unica a notarlo ma una delle due ha i ricci castani e morbidi identici a quelli di Colin. Quando è sera, mi siedo tra i loro lettini e le osservo dormire. Istintivamente allungo la mano verso la fronte di Mitra facendo danzare le dita nella notte. Quando giungono a destinazione le lascio accarezzare quei docili ciuffi che seguono ogni loro passo. Traggo un profondo respiro e rivivo quei cinque interminabili secondi. Sembra quasi che Mitra non voglia svegliarsi per lasciarmi vivere quell'emozione. Non so perchè sto scrivendo questa storia. Non mi era mai venuto in mente in 20 anni di trasformare in inchiostro e carta questo mio ricordo. Ho raccontato più o meno tutto ma non trovo il modo per concludere. Probabilmente perchè una fine non c'è, perchè l'immagine di Colin che bacia il pacchetto dei cerotti non svanirà mai. Posso sentirlo accanto a me, mentre decido che non potrà apparire infondo a questa pagina la parola ....