mercoledì 24 giugno 2009

IL RICORDO ... prima parte

C'era un tempo in cui Gig ed io andavamo a comprare le caramelle dal tipo buffo all'angolo della strada...Benny. Beniamino, questo era il nome di battesimo, lasciava senza indugi che ne prendessimo il doppio di quelle che potevamo permetterci. Così tornavo nel nascondiglio con Gig e le tasche straripanti di dolcetti variopinti multigusti. Ne possedevo tantissime perchè Gig incedeva con un buffo passo ondeggiante e le caramelle cadevano a ritmo cadenzato dai suoi fianchi. Lui non se ne accorgeva ed io le raccoglievo divertita. Ovviamente non le mangiavo, no no, le conservavo perchè dopo un mese le mostravo a Gig per canzonarlo sulla quantità di caramelle che avrebbe sprecato se io non le avessi raccolte... Mi venne allora in mente un gioco che avrebbe reso più attento e responsabile Gig e avrebbe fatto felice qualcun altro. Tutte le "caramelle cadenti" che rimanevano in ottime condizioni venivano messe in sacchettini trasparenti da mia madre e portate da noi all'ospedale di San Sebastiano dove lavorava il padre di Gig. La nostra prima visita al reparto infantile fu divertente ma mi lasciò una strana sensazione che a quella età ancora non sapevo come definire. Da quel momento in poi, ogni qualvolta dovevamo recarci in ospedale Gig indossava una camicia cachi (ci stavamo avvicinando all'estate) con i pantaloni blu di cotone ben stirati. Amava darsi un tono in simili occasioni. Ammetto che provavo un leggero fastidio nel vederlo tutto curato. Mia madre aveva ben capito il perchè del mio rifiuto all'eleganza, e mi lasciava indossare i soliti vestiti o addirittura quelli del giorno prima. Magari con una macchia di sugo, "Mi sta bene la semplicità ma la sporcizia no, su Dani. Porti loro inutili germi" "Va bene mamma" sapeva sempre come convincermi senza che potessi replicare. Ah dimenticavo. Il mio nome è Dani. Ma si legge Danài e il perchè vattelapesca. Insomma, odiavo mostrare a quei bambini quanto in quell'istante fossi più fortunata di loro. "Bruttine" ,ecco la risposta più soddisfacente di mia madre quando la interrogavo sul come fossero le malattie dei miei nuovi amici. Non voleva parlarne, e infondo la capivo, io stessa ero curiosa ma impaurita. Quei visi emergevano dai cuscini più pallidi delle bianche lenzuola e ti regalavano sorrisi che scaldavano fin dentro le vene.
Accadde una mattina di luglio, mentre camminavo per il corridoio accompagnando ogni mio passo con un saluto agli infermieri. Ormai ci aspettavano con ansia tutti gli operatori, erano molto divertiti dal modo di fare mio e di Gig. Rivolsi lo sguardo all'uscio di una porta doveva sostava un'infermiera, non appena pronunciai l'ennesimo buon giorno ella si scostò portando via un carrello e lasciando intravedere un ragazzo adagiato su un letto. Aveva all'incirca dieci o undici anni e si chiamava Colin. Mi incantai a osservarlo, era bello. Lo ricordo così non potrei usare nessun'altra definizione. Non ebbi il coraggio di entrare, avevo il terrore di disturbarlo. Mia madre intuì il mio cambiamento, andavo all'ospedale molto spesso, eppure riuscì a frenare la sua curiosità. Avevo un forte desiderio di conoscerlo ma ogni volta che mi avvicinavo alla sua porta mi assaliva un forte timore. Rimanevo così a osservarlo dal corridoio, cercando di essere il più discreta possibile, potevo stare quanto volevo, nessuno dell'equipe medica era scocciato dalla mia presenza. Notai che i medici lo sottoponevano a continue trasfusioni di sangue, aveva il braccio decorato dai cerotti. Sentii Colin lamentarsi di quel braccio. Fu la prima cosa che gli sentii pronunciare "Che noia questi cerotti". Mi suonò strana la sua lamentela, la pronunciò distaccato, non c'era tristezza nella sua voce. Quel tono piatto e pacato mi turbò. Tornai a casa e chiesi a mamma qualche soldo. Inarcò il sopracciglio destro, sapeva che era qestione di tempo e le avrei detto di lì a breve cosa ci avrei fatto. Il giorno dopo mi recai nuovamente all'ospedale portando con me una scatola di cerotti colorati pieni di pupazzetti. Mi feci coraggio ed entrai. Colin non sembrava sorpreso, si era abituato alla mia presenza, mi confessò in seguito che era impaziente di conoscermi. Mi avvicinai al suo letto e con un sorriso imbarazzato porsi il mio pacchetto di cerotti. Colin lo scartò e mi disse "Pensavo fossero le caramelle che tu e il tuo amico portate a tutto l'ospedale, tranne che a me". Provai a rispondere col viso paonazzo ma lui mi anticipò ridendo e confessò che non amava le caramelle. Mi uscì un flebile "davvero?". Colin aprì il pacchetto e scoppiò in una fragorosa risata asserendo che quei cerotti erano fin peggio dei precedenti. Non ci rimasi male di quell'affermazione, era stato un enorme piacere sentirlo ridere così di gusto. Alla risata seguì un brevissimo silenzio che lui ruppe con un sincero grazie. E' vividissimo il ricordo in me di quel grazie, del modo in cui lo disse inclinando la testa di lato con lo sguardo fisso al pacchetto che continuava a rigirare fra le mani. I profondi occhi neri erano fermi e riconoscenti. Finalmente potevo osservarlo da vicino. I capelli castani scendevano fino le spalle. Le labbra erano fini e molto chiare, il naso minuto, era tutto talmente piccolo e grazioso che non vedevo l'ora di tornare a casa per ridisegnarlo e mostrarlo a mia madre. Sentii che mi voleva bene, e anche io gliene volevo

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