martedì 29 settembre 2009

SI DEVE ANDARE IN SCENA!

- Marie soffoco! –

- Ordini di Bordenave – replicò Marie stringendo ancor più il corpetto. Vesilia si volse verso lo specchio. Notò che un forte rossore si era impadronito del suo viso, come era accaduto in un’altra occasione solamente. Già, quella volta che…

Timidamente guardava le scale che l’avrebbero portata nell’ultima fila dei palchi dell’Ópéra.

Aveva appena sfiorato i primi gradini col suo passo grazioso e svelto, quando sentì qualcosa trattenerla per la gonna. Si girò di scatto impaurita, ma i suoi timori svanirono allorché incontrò un candido sorriso.

- Una bellezza come la vostra non può gustare l’opera da così lontano –

L’uomo prese la mano che Vesilia aveva appoggiato sul cuore sussultante e la condusse lentamente verso le sue labbra. Si inchinò leggermente e disse:

- Marchese Gouròn de Got. Sarei lieto di avervi come mia ospite –

Vesilia, divenuta un tutt’uno col marmo del gradino su cui poggiava, non riuscì a rispondere. Il marchese, non volendo turbare eccessivamente la ragazza, si inchinò nuovamente per congedarsi. Fu allora che Vesilia ritrovò la sua voce:

- Aspettate –

Distolse la mente dal ricordo quando i suoi occhi si tuffarono dallo specchio in quelli di Marie:

- Ti prego – insistette Vesilia sottovoce – vedi che non riesco a parlare, figurati se posso recitare. Il pubblicò pazienterà. Non moriranno se per una sera non vedranno i miei seni – affermò decisa.

Marie con un sospiro spazientito l’accontentò.

- Non preoccuparti, nessuno ti licenzierà per questo –

- Lo spero davvero –

Bussarono alla porta:

- Tra venti minuti in scena! –

Entrambe sussultarono. Marie si precipitò fuori dal camerino urlando che ancora doveva vestire due ragazze, ma cento mani invisibili le bloccarono l’uscita e lei si fermò. Vesilia fu scossa da un brivido. Marie si voltò lentamente, soppesando le parole che stava per riferire alla sua piccola attrice:

- Mi è giunta voce della morte di Nanà, volevo sapere come stavi –

Vesilia non seppe cosa rispondere, non si era mai soffermata a riflettere su quell’oscuro avvenimento, non voleva affrontarlo:

- Non saprei dirtelo Marie. È come se avessi sempre saputo come sarebbe andata a finire –

- Mi sei mancata questi tre mesi Vesilia – cambiò discorso Marie

- Grazie Marie, ora però sono tornata –

La ragazza si sedette sullo sgabello e iniziò a truccarsi. Aprì il portacipria e tamponò la polvere rosata sulle gote. Il camerino non era ben illuminato, dalle pareti sudice l’umidità le azzannava le spalle nude. Vesilia, però, non faceva caso a quella topaia. Nel silenzio di quella stanza ella udiva un'altra musica, lontana...


Il marchese la fece entrare nel suo palco. Vesilia tenendo tra le dita i lembi della povera gonna si inchinò presentandosi. De Got le alzò il viso con un dito e la scrutò a lungo, immobile. La ragazza non aveva il coraggio di abbandonare quella posa, non voleva recar offesa al gentiluomo, ma sentì il viso diventar fuoco mentre quei due smeraldi erano poggiati su di lei. Il marchese finalmente tolse l’indice da sotto il mento di Vesilia e la invitò ad accomodarsi.

Quando il buio inondò la platea De Got le si avvicinò sussurrandole dietro l’orecchio:

- Dal vostro accento direi che non siete di queste terre –

Vesilia lottò per placare i brividi sul collo

- No, sono italiana –

L’ Ouverture coprì le loro parole

- Ah!qui a Parigi ci si diletta solo col tedesco e con l'inglese! Allora potreste tradurmi quel che mi sfugge... –

- È la prima volta che assistete a La Traviata? – chiese sorpresa Vesilia

- Ah, mia cara… – ed ella si sentì molto sciocca per aver posto una simile domanda a un

Marchese

La nuvola sognante si dissolse quando bussarono nuovamente :

- Tra quindici minuti in scena! – E Vesilia ancora teneva il piumino in mano avvolta dalle note

di Giuseppe Verdi. Una lacrima le rigò una guancia ma prontamente il trucco cancellò ogni emozione

- Bambolina ci sei? –

- Entra pure Bordenave – disse sarcastica Vesilia

- Ancora così? Vesille sbrigati- amava pronunciare quel nome alla francese - non puoi far attendere il tuo pubblico, gli ammiratori si stanno per gettare dai palchetti, tutti ti aspettano con ansia, è il tuo grande ritorno! –

- Lo so, lo so – volle zittirlo Vesilia, ma non poteva di certo placare l’impetuoso, logorroico Bordenave

- Un conte mi ha offerto…volevo dire, ti offrirebbe una cifra esorbitante se tu volessi allietarlo col tuo canto dopo lo spettacolo –

- Non canto già abbastanza sul palco? –

- Vesille! –

- No Bordenave, i patti erano chiari, sarò la tua prima donna, ti riempirò i teatri, il pubblico andrà in visibilio, ma non pretendere altro. E ora lasciami preparare –

Lo invitò con un gesto ad uscire e vide il viso del produttore rabbuiarsi. Bordenave era consapevole che Vesilia andava accontentata, era l’unica che in quel periodo riusciva a scatenare una calca di gentiluomini fuori al Variétés. Sforzandosi di non replicare, si avviò verso l’uscio:

- Penso che tu abbia saputo di Nanà. La mia piccola Nanà – pronunciò tristemente Bordenave e Vesilia si pentì di essere stata severa con lui.

- Sì, purtroppo- sospirò aggiungendo - capisci perché non voglio più avere a che fare con conti marchesi o principi. La mia vita è del teatro, non del primo portafogli che viene ad ammirarmi–

Bordenave la lasciò.

Vesilia si alzò dallo sgabello per andare a chiudere la porta ma si bloccò lì, con la mano stretta intorno alla maniglia. Appoggiò la fronte a quel freddo legno e scivolò a terra. Giaceva rannicchiata, tenendo il braccio levato per reggersi alla maniglia d’ottone, come se quella presa fosse l’unico filo che la collegasse alla realtà

- Violetta adesso finge di non amarlo più; ella preferisce salvare Alfredo dai pregiudizi dell’aristocrazia parigina piuttosto che essere felice insieme a lui tutta la vita –

- E come fa una ragazza come te a intendersi di lirica?- chiese con fare provocatorio il

Marchese De Got

- Mio padre faceva il macchinista alla Fenice di Venezia e riuscivo sempre ad intrufolarmi dietro le quinte o in piccionaia. Ho sempre amato l’Opera, sin da bambina –

- Ossia adesso – rise il marchese

- Che ne sapete voi della mia età?- chiese con un candido sorriso

- Me lo dice l’ingenuità che alberga tra le vostre palpebre

- Uh! – esclamò Vesilia, fingendo di non aver sentito la risposta. Gli occhi erano rapiti dalle luci del palcoscenico – Alfredo ha letto la lettera…ma ormai è tardi, Violetta sta per morire -

- Questa storia mi lascia continuamente perplesso. Nessun uomo di rispetto rinuncerebbe alla dignità e al patrimonio pur di avervi… scusate- disse De Got lasciando intendere che non aveva affatto sbagliato - volevo dire, pur di avere Violetta -

Vesilia incrociò il suo sguardo. Si sentiva senza forze, De Got era così irritante e anche tanto attraente allo stesso tempo. Vesilia non sapeva se dargli uno schiaffo o farsi baciare. In cuor suo sapeva che se egli avesse provato ad avvicinarsi con quelle labbra color cremisi lei non avrebbe potuto resistere, anzi quasi sperava…


- Tra dieci minuti in scena! – tuonò la solita voce accompagnata dal suono delle nocche sul legno della porta

Satin provò ad entrare nel camerino di Vesilia ma trovò un ostacolo

- Vesilia, stai bene? – riuscì ad aprire di poco la porta tanto da poter guardare nella stanza - Perché stai sul pavimento? Vesilia! –

Vesilia aprì gli occhi e guardò in su, verso Satin. Si rialzò e la lasciò entrare.

- Ancora non mi sono ripresa – rispose debolmente

- Bordenave capirà, anche lui è distrutto ma non possiamo iniziare più tardi –

- Ah, quella bestia mi farebbe andare in scena a tutte le ore. Infondo non lo sa –

- Certo che lo sa di Nanà…sei impazzita? –

- No, non parlavo di Nanà ma della…- e indugiò per un istante finchè Satin intervenne

- Pardon…non avevo capito -

- Solo a te Satin, neanche a Marie ho avuto il coraggio di dirlo –

- Sono l’unica a saperlo? Non immaginavo che ti fidassi così tanto di me –

- Beh, avevo scritto una lettera a Nanà per darle la notizia, ma, come sai, non mi ha risposto –

- Beata te che sai scrivere – scherzò Satin ma si accorse di non esser stata opportuna. Cercò di riprendersi – a proposito del nostro segreto… di lui hai notizie? Qualcuno gli avrà detto che sei tornata alla ribalta –

- Satin preferirei non rivederlo. Capirebbe la farsa e ciò non deve assolutamente accadere. Non ho alternativa, devo recitare sopra e sotto il palco –

- Sei folle Vesilia, Gouròn avrebbe fatto qualsiasi cosa per te! –

- Ah! Sognatrice! Dopo due anni di appuntamenti furtivi ho iniziato a capire qual era la realtà. Un’amante, solo quello sarei stata per lui...era così evidente, ma non riuscivo a rassegnarmi all’idea, ero sicura che tutto sarebbe cambiato, che il nostro amore sarebbe potuto uscire alla luce del sole…invece capii che non ci saremmo mai sposati e che io mi sarei trovata sola, senza soldi e con una… -

Bussarono alla porta.

- Tra cinque minuti in scena! – tuonò la voce ancor più vigorosa fuori la porta.

Marie fece capolino.

- Lo sappiamo, è ora – dissero le due ragazze in coro anticipando Marie,ma la costumista continuò:

- Veramente, Vesilia, c’è qualcuno per te, vieni con me Satin, hai l’acconciatura messa male –

- Chi è ? – chiese invano Vesilia mentre Satin usciva. Improvvisamente ricordò che doveva

finire di truccarsi, era tardissimo. Non fece in tempo a colorar le guance che qualcuno entrò. Vesilia vide il riflesso della persona dietro le sue spalle e quasi svenne. Gouròn corse verso di lei per sorreggerla.

- Ti faccio questo effetto? sono tre mesi che fuggi i miei appuntamenti. Perché Vesilia? –

- Ora no, ti prego, no. Non mi sento bene e devo andare in scena –

- Voglio solo sapere la verità – affermò freddamente

- Te l’ho detta –

- Ma per favore! Bordenave è venuto a trovarmi. È stato lui ad annunciarmi che stasera ti avrei trovata qui, come se i cartelloni già non l’avessero proclamato abbastanza. Ora posso parlarti di persona –

- Certo, parlarmi, ma sempre in luoghi nascosti, ove nessuno possa vederci – replicò amaramente

- Non ricominciare Vesilia! –

- Perfetto. Se qualcosa non riinizia vuol dire che è finita. Basta. Vattene da qui –

- No – urlò lui e lei gli tappò la bocca con la minuta mano.

- Bordenave mi ha portato una lettera, il giorno che è venuto nella mia residenza, una lettera di Satin. I toni erano molto preoccupati e alla fine c’era scritto che l’unico modo per risolvere questa situazione era che tu mi confessassi qualcosa. È vero Vesilia? Devi dirmi qualcosa che non so?

“Menomale che era un segreto” pensò Vesilia mentre Gouròn de Got continuava:

- Una cosa che sa lei e forse qualcun altro soltanto, ha detto che ho il diritto di sapere…ma

non ha voluto anticiparmi nulla, devo sentirlo da te. Avanti, sono qui, e forse è l’ultima

occasione che hai di vedermi – e quella frase congelò la sua voce.

Vesilia fu assalita da una domanda atroce. Non capiva se era una minaccia o se anche lui nascondesse davvero qualcosa.

- Ad agosto mi sposo, vado a vivere a Marsiglia - disse il marchese Gouròn De Got con lo stesso tono tranquillo di chi annuncia l’acquisto di due nuovi cavalli per la tenuta in campagna

- Ah – fece Vesilia con un filo di voce e lo sguardo fisso sul pavimento. Poi non resistette

oltre e lo strinse a sé. Lui la scostò:

- Avanti, voglio sapere questo stupido segreto e poi prometto che sparisco per sempre, così sarai contenta, è questo ciò che vuoi, altrimenti non saresti sparita per tre mesi –

- Come ti sbagli Gouròn. Non sarò affatto felice senza di te, ma se avessi lasciato questa storia andare avanti, ah! Allora sì che avrei sofferto –

- IN SCENA, IN SCENA – Quasi venne distrutta la porta del camerino. Vesilia guardò il pendolo.

- Non vai via da qui finchè non mi confessi tutto – la minacciò de Got

- Ti prego vediamoci dopo lo spettacolo! –

- No! – esclamò sbraitando – ora! –

Vesilia si fece coraggio e parlò tutto d’un fiato:

- Aspettavo una bambina, ed era sicuramente tua, vorrei sottolinearlo prima che tu possa farmi una stupida domanda- inspirò forte perché sentiva mancare l’aria – ed ho abortito. Nanà un giorno mi raccontò di averlo fatto. Così sono andata in quella… casa…a Montmartre – prese una pausa

- Lo so che potevo morire, che era pericoloso, ma avevo più paura di ritrovarmi sola, senza soldi, a dormire per strada, senza poter lavorare a teatro, con una bimba da accudire. Nessuno mi avrebbe voluto in questa città spietata – aspettò un secondo e lo disse – Neanche tu –

Gouròn sedette sulla cassapanca, appoggiò la fronte sui palmi delle mani. Vesilia si alzò e accarezzò i suoi capelli neri, perdendo di vista le dita nella folta chioma. Gouròn si riprese subito da quel momento di debolezza, prese dalla tasca un piccolo libro di poesie che Vesilia le aveva regalato due anni prima

- Grazie ma non mi interessa più imparare l’italiano – e lo mise nelle mani minuscole di Vesilia. Pronunciò quelle parole senza alcun sentimento, impassibile. Indossò il cilindro e la lasciò con un secco addio, senza richiudere la porta aperta. Vesilia era pietrificata, non riusciva a vedere i contorni di quell’addio a causa delle lacrime. Dopo un istante eterno scacciò via l'umido dagli occhi e dalle guance: la folla dalla platea stava gridando entusiasta il suo nome. Doveva andare in scena.

Il giorno delle nozze al marchese arrivò un inaspettato regalo. Lo aprì nella sua stanza mentre finivano di vestirlo per la cerimonia. Era accompagnato da un biglietto:

vai a pagina XXVII.

Null’altro.

Era un libricino di poesie di Pascoli a lui noto. Andò alla pagina indicata con una frenetica calma. La parte superiore della pagina era stata strappata. Lesse solo gli ultimi quattro versi rimasti, in italiano:

Il vento soffia e nevica la frasca,

e tu non torni ancora al tuo paese!

Quando partisti, come son rimasta!

Come l’aratro in mezzo al maggese.


martedì 30 giugno 2009

La telefonata

- Buon giorno, biglietto prego- chi parla è una signor...ina, beh avrà a malapena trent'anni ma già le rughe si affacciano sul mondo esterno. Nessuna crema le ha ancora sconfitte e tronfie cercano di menarsi le arie sovrastandosi l'una con l'altra. La signorina ha capelli scuri raccolti malamente in una frettolosa crocchia (non le ha suonato la sveglia?) Gli occhiali da vista le scendono fastidiosamente lungo il naso adunco e ogni volta sembra che stiano lì lì per cadere. Ella disinvolta li riporta continuamente al punto di partenza, inconsapevole di aver trasformato quel gesto in un tic. Le labbra sono pressappoco inesistenti ma le insistenti applicazioni di rossetto le hanno rese di un bel rosso acceso. Parliamo di spennellate su spennellate da far invidia alle stoffe vermiglie che vestono i personaggi di Michelangelo .
La divisa estiva dei dipendenti delle Ferrovie non dà modo ai suoi indossatori di far traspirare la pelle, e questa è la pena che sta scontando anche la protagonista della nostra breve storia. Rivoli di sudore le scendono sulla fronte e gareggiano al chi arriva primo fino alle sopracciglia, da lì poi ogni rigo prende la sua strada. Una goccia si ferma, un'altra svolta e scivola lungo la tempia, oppure dalla tempia corre giù fino alla guancia. Questi sono i giochi visibili offerti a un'osservatore esterno, ma è facile ipotizzare che anche in luoghi imperscrutabili si stessero svolgendo diverse gare. Tutta questa competizione non poteva non circondare la dipendente delle Ferrovie di un insopportabile odore acre. Dio salvi chi ha inventato la pubblicità del deodorante. Ella non sembra accorgersi della ionosfera entro la quale si muove: disinvolta controlla che i viaggiatori non derubino le Ferrovie e con una certa diffidenza riconsegna il biglietto mostratole. Il trapasso dalla sua mano a quella del passeggero avviene lentamente con un graduale innalzamento del sopracciglio destro a voler redarguire il viandante "Confessa la tua frode finché sei in tempo marrano!". Ma il passeggero è indifferente di fronte a tanta scrupolosità e si riappropria del titolo di viaggio senza riconoscere la diligenza della signorina M (sì la chiameremo M), la quale indispettita dalla sua autorità non riconosciuta si dirige verso una nuova carrozza. Si aprono le porte scorrevoli e un fastidioso rumore telefonico disturba il classico brusio da vagone poco affollato. Imbarazzata al voltar simultaneo delle teste incuriosite la signorina M si affanna a cercare l'aggeggio metallico che la reclama. L'intera borsetta vibra in una frenetica danza spostando ritmicamente ogni oggetto contenuto all'interno.

-Pronto?- chiede con voce squillante. I volti si sporgono verso di lei corrucciati
-Pronto?- ripete abbassando il tono di vari decibel - Corrado sto lavorando ti richiamo io - pausa. I viaggiatori distolgono l'attenzione, non è nulla di interessante - Perché no? Aspetta un momento!- Il capotreno è appena entrato nella carrozza. La signorina M. prontamente nasconde il cellulare dietro la schiena e prosegue la sfilata reclamando i biglietti. L'occhio destro ha perso la sua funzione ammonitrice, adesso osserva di sbieco gli spostamenti dell'alto funzionario. "Sta venendo qui, aiuto!" pensa M. tremante. Sudore freddo e caldo si mescolano in un brivido. "No, l'ho scampata!" Il capotreno si era rivolto a un passeggero facoltoso invitandolo in prima classe.
- Corrado - sussurra nuovamente al telefono - perché non posso richiamarti io? Dai ti chiamo tra sei carrozze! - esclama nascosta dietro allo schienale di un sedile. Qualcuno è tornato a osservarla incuriosito. La signorina M. si avvicina ad altre poltrone. Un viaggiatore le consegna il biglietto sua sponte e torna a guardare oltre il finestrino. M. lo afferra e continua a discorrere al cellulare. Il viaggiatore dopo pochi istanti si volta nuovamente per riprendere il biglietto ma nota che la donna è divenuta di marmo. Prova a sfilarle il biglietto dalla mano ma M. non molla la presa. Il povero pigmalione guarda verso la sua statua innervosito.

- Co...cosa vuol dire che "è finita" - M. inizia a balbettare. Il corpo è rigido, si è trasformata in sola voce. Il pigmalione avverte una risposta lontana del tipo - Vuol dire che è finita - Gli occhiali di M. sono scesi fino alla punta del naso e sembrano trattenersi dal cadere per rispetto di quel momento teso. Il pigmalione percepisce il dolore della signorina M. così come altri diversi passeggeri della carrozza.
- Ma no ... non puoi lasciarmi così - la voce è tremula, spenta. Gli occhi non reagiscono allo stimolo del paesaggio che le scorre davanti. Fissano un punto ignoto nell'universo. Il pigmalione coglie un'altra frase dell'altra parte della cornetta - M. é così. Non posso fingere ancora. Non sono più innamorato di te. Non più... - La signorina M. a quel punto farfuglia una sequela di parole quali la casa, il cane, mia madre, il vestito, il...bambino. L'uomo avverte quella parola e dà in escandescenza tuonando come Giove: - Tu non volevi un figlio! - Quella risposta sortisce nella signorina M. l'effetto di una scarica elettrica. Sbatte tre volte le palpebre e si rianima. Lascia cadere il cellulare a terra. Il pigmalione non ha il suo biglietto indietro: essendo la prima cosa che M. si ritrova per le mani viene stracciata in una frazione di secondo. Si riaggiusta spavalda gli occhiali, increspa il viso, raccoglie il cellulare e inizia a decantare una serie di terzine di improperi parolacce e insulti. Il capotreno smette di discorrere col facoltoso passeggero e con un balzo è addosso a M. e prova a strapparle il cellulare. Le ossute mani della signorina sono dure a cedere, il capotreno cerca di placcarla ma viene morso. M. veloce come una lince si rimpossessa del cellulare e corre verso le porte della carrozza - Brutto figlio di una megera rognosa come è tua m... - e via col tango. Non è necessario continuare. L'intero treno afferra il concetto. La gente maligna ne gode di una tal scena, contenta di aver dato una smossa al noioso viaggio. Solo una ragazza sembra compatirla e scoppia a piangere. Chissà quali ricordi quella situazione ha riportato a galla.
Il capotreno, vinto il dolore, agita le natiche come un gatto pronto a eseguire un nuovo balzo, ma viene fermato dal pigmalione. - mi permetta. Signorina - esclama risoluto avvicinandosi - mi dia il cellulare - - No! Mai! non ho finito di dirgli quanto è ... - l'uomo dall'altra parte del telefono approfitta di quel momento di distrazione di M. per ricoprirla con una nuova raffica di insulti. Il pigmalione, deciso, prende il telefono. Aspetta cortesemente che il signore finisca la sua lista della spesa e pacatamente dice: - Lasciare una donna per telefono, bella o brutta che sia, simpatica o antipatica, intelligente o stupida, è il gesto più vile che un uomo possa compiere. Oltre tutto durante l'orario di lavoro. Ma la cosa che più mi ha innervosito è che Lei, mio caro, non ha calcolato la reazione della sua fidanzata, ehm volevo dire ex, la quale ha causato diversi feriti gravi, crisi isteriche in giovani donne, scoppio di emicrania al sottoscritto, pandemonio generale. Sono lieto di comunicarle che, in facoltà di Avvocato, procederò nei suoi confronti, si aspetti una mia lettera: ho tutti i testimoni necessari per farle passare davvero delle belle rogne. Arrivederci in tribunale - conclude con tono asciutto. Il volto è soddisfatto. La carrozza esplode in un giubilo generale, i cappelli si levano in alto, come se il pigmalione avesse invitato tutti a un party in piscina. L'ovazione raggiunge il suo culmine con un abbraccio della signorina M. al suo salvatore. - Farà davvero tutto questo per me? Una sconosciuta? - Gli occhi speranzosi da cerbiatto si posano sul suo Messia. Il pigmalione sfodera un sorriso rassicurante, da tipico avvocato della City: - Mia cara...assolutamente no. Io sono solo un operatore ecologico che è appena andato in pensione, lo so che l'abbigliamento vi ha tratto in inganno ma sto andando a un ricevimento. Comunque non si preoccupi, vedrà che il figlio della megera richiamerà presto per scusarsi... -
TRIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIINNNNNNNNNNNN

mercoledì 24 giugno 2009

IL RICORDO ... prima parte

C'era un tempo in cui Gig ed io andavamo a comprare le caramelle dal tipo buffo all'angolo della strada...Benny. Beniamino, questo era il nome di battesimo, lasciava senza indugi che ne prendessimo il doppio di quelle che potevamo permetterci. Così tornavo nel nascondiglio con Gig e le tasche straripanti di dolcetti variopinti multigusti. Ne possedevo tantissime perchè Gig incedeva con un buffo passo ondeggiante e le caramelle cadevano a ritmo cadenzato dai suoi fianchi. Lui non se ne accorgeva ed io le raccoglievo divertita. Ovviamente non le mangiavo, no no, le conservavo perchè dopo un mese le mostravo a Gig per canzonarlo sulla quantità di caramelle che avrebbe sprecato se io non le avessi raccolte... Mi venne allora in mente un gioco che avrebbe reso più attento e responsabile Gig e avrebbe fatto felice qualcun altro. Tutte le "caramelle cadenti" che rimanevano in ottime condizioni venivano messe in sacchettini trasparenti da mia madre e portate da noi all'ospedale di San Sebastiano dove lavorava il padre di Gig. La nostra prima visita al reparto infantile fu divertente ma mi lasciò una strana sensazione che a quella età ancora non sapevo come definire. Da quel momento in poi, ogni qualvolta dovevamo recarci in ospedale Gig indossava una camicia cachi (ci stavamo avvicinando all'estate) con i pantaloni blu di cotone ben stirati. Amava darsi un tono in simili occasioni. Ammetto che provavo un leggero fastidio nel vederlo tutto curato. Mia madre aveva ben capito il perchè del mio rifiuto all'eleganza, e mi lasciava indossare i soliti vestiti o addirittura quelli del giorno prima. Magari con una macchia di sugo, "Mi sta bene la semplicità ma la sporcizia no, su Dani. Porti loro inutili germi" "Va bene mamma" sapeva sempre come convincermi senza che potessi replicare. Ah dimenticavo. Il mio nome è Dani. Ma si legge Danài e il perchè vattelapesca. Insomma, odiavo mostrare a quei bambini quanto in quell'istante fossi più fortunata di loro. "Bruttine" ,ecco la risposta più soddisfacente di mia madre quando la interrogavo sul come fossero le malattie dei miei nuovi amici. Non voleva parlarne, e infondo la capivo, io stessa ero curiosa ma impaurita. Quei visi emergevano dai cuscini più pallidi delle bianche lenzuola e ti regalavano sorrisi che scaldavano fin dentro le vene.
Accadde una mattina di luglio, mentre camminavo per il corridoio accompagnando ogni mio passo con un saluto agli infermieri. Ormai ci aspettavano con ansia tutti gli operatori, erano molto divertiti dal modo di fare mio e di Gig. Rivolsi lo sguardo all'uscio di una porta doveva sostava un'infermiera, non appena pronunciai l'ennesimo buon giorno ella si scostò portando via un carrello e lasciando intravedere un ragazzo adagiato su un letto. Aveva all'incirca dieci o undici anni e si chiamava Colin. Mi incantai a osservarlo, era bello. Lo ricordo così non potrei usare nessun'altra definizione. Non ebbi il coraggio di entrare, avevo il terrore di disturbarlo. Mia madre intuì il mio cambiamento, andavo all'ospedale molto spesso, eppure riuscì a frenare la sua curiosità. Avevo un forte desiderio di conoscerlo ma ogni volta che mi avvicinavo alla sua porta mi assaliva un forte timore. Rimanevo così a osservarlo dal corridoio, cercando di essere il più discreta possibile, potevo stare quanto volevo, nessuno dell'equipe medica era scocciato dalla mia presenza. Notai che i medici lo sottoponevano a continue trasfusioni di sangue, aveva il braccio decorato dai cerotti. Sentii Colin lamentarsi di quel braccio. Fu la prima cosa che gli sentii pronunciare "Che noia questi cerotti". Mi suonò strana la sua lamentela, la pronunciò distaccato, non c'era tristezza nella sua voce. Quel tono piatto e pacato mi turbò. Tornai a casa e chiesi a mamma qualche soldo. Inarcò il sopracciglio destro, sapeva che era qestione di tempo e le avrei detto di lì a breve cosa ci avrei fatto. Il giorno dopo mi recai nuovamente all'ospedale portando con me una scatola di cerotti colorati pieni di pupazzetti. Mi feci coraggio ed entrai. Colin non sembrava sorpreso, si era abituato alla mia presenza, mi confessò in seguito che era impaziente di conoscermi. Mi avvicinai al suo letto e con un sorriso imbarazzato porsi il mio pacchetto di cerotti. Colin lo scartò e mi disse "Pensavo fossero le caramelle che tu e il tuo amico portate a tutto l'ospedale, tranne che a me". Provai a rispondere col viso paonazzo ma lui mi anticipò ridendo e confessò che non amava le caramelle. Mi uscì un flebile "davvero?". Colin aprì il pacchetto e scoppiò in una fragorosa risata asserendo che quei cerotti erano fin peggio dei precedenti. Non ci rimasi male di quell'affermazione, era stato un enorme piacere sentirlo ridere così di gusto. Alla risata seguì un brevissimo silenzio che lui ruppe con un sincero grazie. E' vividissimo il ricordo in me di quel grazie, del modo in cui lo disse inclinando la testa di lato con lo sguardo fisso al pacchetto che continuava a rigirare fra le mani. I profondi occhi neri erano fermi e riconoscenti. Finalmente potevo osservarlo da vicino. I capelli castani scendevano fino le spalle. Le labbra erano fini e molto chiare, il naso minuto, era tutto talmente piccolo e grazioso che non vedevo l'ora di tornare a casa per ridisegnarlo e mostrarlo a mia madre. Sentii che mi voleva bene, e anche io gliene volevo

IL RICORDO...seconda parte

Ah! Chissà se mi ero innamorata per la prima volta. Quello non lo ricordo. Ancora oggi ho difficoltà a ricordarmi di quando mi innamoravo da ragazza. Quando mi piaceva qualcuno la mia persona continuava la vita regolare mentre nei pensieri era impressa l'immagine del ragazzo. Era come se la mia testa volesse indagarlo, conoscerlo, immaginarlo per capirlo fino in fondo, come per preservarsi da brutte sorprese. E poi chi lo sa quando era davvero amore e quando no.

Non riuscivo a distogliere gli occhi da quei capelli castani che scendevano disordinati sulla fronte, Colin li scostava e come l'edera agitata da una brezza serale ritornavano al loro posto. Potessi toccarli, pensavo. E fu ciò che feci. Con la sfrontata delicatezza di una bambina allungai la mano e sentii come erano morbidi mentre li premevo verso la sua fronte. Colin non protestò, e non fece domande ma rimase compiaciuto del mio gesto. I capelli erano per lui fonte di orgoglio. Ci giocai per cinque interminabili secondi. Ritrassi la mano velocemente, stordita, come se mi fossi scottata. Colin chiese il mio nome, e chiacchierammo fino alla fine dell'ora delle visite. Quando l'inserviente mi invitò a uscire obbedì di malavoglia e mi trascinai con le gambe fino alla porta. Arrivata all'uscio mi rigirai per salutarlo e vidi Colin portare il pacchetto dei cerotti fino al viso per poggiarci sopra le labbra. Sentii brividi per tutto il corpo, ero al settimo cielo. "Piano terra?"chiesi raggiante all'infermiera una volta innanzi all'ascensore. Provai un senso di felicità a me ignoto, volevo correre da lui per abbracciarlo ma le porte si erano appena chiuse alle mie spalle e ogni tentativo di evasione sarebbe stato inutile. La cosa che meno capivo di tutte era la gelosia che Gig iniziò a manifestare nei miei confronti. Come poteva essere così egoista? Lui aveva tutto dalla vita e inoltre pretendeva che la mia amicizia fosse indirizzata solo a lui? Provai a spiegargli che ciò che mi legava a Colin era qualcosa di stranamente diverso e che nulla avrebbe scalfito il bel rapporto tra noi due ma Gig fece una smorfia al suono di quelle parole e se ne andò via lasciandomi davanti il negozio di Benny con le mie caramelle in tasca. Ripensandoci bene, la persona che non aveva capito un bel nulla ero proprio io. Ma cosa ne potevo sapere dal basso dei miei undici anni quali emozioni agitassero Gig, figuriamoci! Non comprendevo le mie! Gig non si fece vedere per una settimana, è brutto ammetterlo ma non mi mancò quanto mi aspettavo. Le ore passate accanto a Colin mi riempivano le giornate intere. Ma poco prima della sua partenza per il mare Gig mi venne a trovare. Non voleva passare del tempo con me, il suo scopo era un altro."Avvisarmi". Mi disse che il suo consiglio non era mosso da alcuna invidia, fu molto attento a precisare questo punto, così mi suggerì di non andare più a trovare Colin tutti i giorni, che stavo esagerando. A quel punto mi arrabbiai e replicai che ero stufa di tutte quelle storie e che preferivo che fosse sincero e ammettesse di essere geloso. Gig sbuffò ed esclamò seccamente: "Non voglio vederti piangere!" Girò i tacchi e scrollando le spalle uscì dal mio giardino. Il tonfo del cancelletto che si richiudeva mi riportò alla realtà.

IL RICORDO ... terza e ultima parte

L'estate passò come un razzo e ci fu la scuola, le medie, l'inizio di una nuova vita, nuove amicizie, nuove esperienze. Insomma tutto nuovo. A parte quella frase che ormai aveva messo le ragnatele nella mia testa. "Non voglio vederti a piangere". Avevo costantemente cercato di non ricordarla, di camuffarla con un'altra frase, "convoglio solerte a correre", avevo impiegato un giorno per trovare un'alternativa da ripetermi quando il viso di Gig mi tornava alla memoria. Sì sì, non mi chiedete perché ma Gig disse Convoglio solerte a correre. Eppure arrivò la Vigilia di Natale e quella frase spazzò via ogni mio mascheramento. Andai all'ospedale con un regalo maldestramente impacchettato da me perchè mia madre era troppo impegnata coi suoi fritti. Camminai per il corridoio immaginando come giustificare quell'orrore, svoltai l'angolo, ed entrai. Il letto era vuoto. "E' guarito!" pensai. Era finito il mio conto alla rovescia, finalmente potevamo passare il tempo nel mio giardino o giù al molo dei pescatori, lo avrei portato nel mio nascondiglio e gli avrei fatto conoscere Gig per poi notare fiera che insieme si trovavano proprio bene. Cercai l'infermiera per sapere dove fosse Colin ma lei mi trascinò fino all'ascensore. "Convoglio solerte a correre" spazzai via la frase e mi concentrai sul viso inquieto dell'inserviente. Spostava il peso da una gamba all'altra nervosamente. "Non voglio vederti a piangere" E in un momento il giorno divenne notte, le allodole cantavano alla sera e i gufi annunciavano il mattino. Il mio viso divenne irriconoscibile dietro le lacrime. Uscii dall'ospedale completamente sconvolta, frastornata. Strappai la carta e guardai il mio regalo, una cornice con la nostra foto. Gig mi aveva avvertito, ma come potevo rinunciare a quei riccioli. Corsi da Gig, lui era in veranda, mi vide arrivare e mi corse incontro. Mi strinse forte e ascoltò i miei singhiozzi e i miei sfoghi. Avrei voluto vederlo un'ultima volta. Avrei voluto dirgli quanto era importante per me. Tra i giochi e le risa non avevo mai avuto l'occasione di dirglielo. E il Natale passò ma non andò via dalla mia memoria. Colin mi segue ovunque. Ho cura della nostra foto la porto sempre con me. Molte sere se non riesco ad addormentarmi la prendo e mi ci cullo tenendola al petto. Ora ho due bambine e sono gemelle. Sono l'unica a notarlo ma una delle due ha i ricci castani e morbidi identici a quelli di Colin. Quando è sera, mi siedo tra i loro lettini e le osservo dormire. Istintivamente allungo la mano verso la fronte di Mitra facendo danzare le dita nella notte. Quando giungono a destinazione le lascio accarezzare quei docili ciuffi che seguono ogni loro passo. Traggo un profondo respiro e rivivo quei cinque interminabili secondi. Sembra quasi che Mitra non voglia svegliarsi per lasciarmi vivere quell'emozione. Non so perchè sto scrivendo questa storia. Non mi era mai venuto in mente in 20 anni di trasformare in inchiostro e carta questo mio ricordo. Ho raccontato più o meno tutto ma non trovo il modo per concludere. Probabilmente perchè una fine non c'è, perchè l'immagine di Colin che bacia il pacchetto dei cerotti non svanirà mai. Posso sentirlo accanto a me, mentre decido che non potrà apparire infondo a questa pagina la parola ....